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— Parola all'editore

“Gli indifferenti” di Alberto Moravia

“Gli indifferenti” di Alberto Moravia

Il romanzo

Secondo Giacomo Debenedetti, l'epoca del romanzo contemporaneo in Italia ha inizio con la scoperta di Svevo e con la pubblicazione nel 1929 degli Indifferenti, che alla voce dedicata ad Alberto Moravia sulla Treccani viene definito “romanzo capitale nella letteratura italiana del Novecento”. E per molti, nonostante i capolavori della maturità che sareberro seguiti, l'esordio del ventiduenne Alberto Moravia resta la sua opera migliore.

Il giovane Alberto Pincherle comincia a scriverlo nel 1926. È ottobre, ha appena lasciato il sanatorio di Cortina, dove si trova da un paio d'anni, per la casa di cura Guggenberg a Bressanone e lì dà inizio alla stesura del romanzo. Già dai primi mesi dell'anno vagheggiava di cimentarsi in una narrazion lunga – “il protagonista dovrebbe essere un ragazzo della mia età (diciassette anni)” –, ma è solo con il trasferimento in Alto Adige e con la ripresa dell'attività motoria dopo sedici mesi a letto che si getta nella scrittura. Nonostante le insistenze della madre non riprende studi regolari e anche negli anni successivi alternerà Roma a Cortina, per continuare le cure. È proprio la sua condizione di infermo che lo spinge verso la letteratura:

Se fossi sano, e non avessi questa gamba che mi impedisce tutto, e dopo 500 metri di cammino mi fa desiderare un letto nero e profondo come un precipizio, tutto sarebbe stato diverso e io non avrei pensato neppure un istante a scrivere romanzi.

Da una lettera alla zia, Amelia Rosselli

Nel marzo 1928 il romanzo è finito e viene proposto all'editore Mario Lironcurti delle Edizioni Sapientia, che lo respinge (“una nebbia di parole”, è il giudizio negativo) amareggiando l'autore. Moravia lo invia quindi alla Alpes di Cesare Giardini, casa editrice presieduta da Arnaldo Mussolini. Tre mesi dopo riceve la risposta positiva del direttore, che chiede però al giovane scrittore di accollarsi le spese di pubblicazione, cinquemila lire (pagate dal padre). Nella primavera del ’29 corregge le bozze e dà al romanzo il titolo che tutti conosciamo, dopo aver scartato varie ipotesi. Gli indifferenti esce in giugno e ottiene immediatamente un notevole successo di critica (a partire dalla recensione di Giuseppe Antonio Borgese sul Corriere) e di pubblico: la prima edizione si esaurisce in pochissime settimane e già a novembre si è alla terza ristampa.

Nel 1948 Valentino Bompiani, ormai da più di dieci anni editore di Moravia, acquista dalla casa editrice Darsena, erede della Alpes, i diritti del romanzo: da quel momento Gli indifferenti è un caposaldo del nostro catalogo.

Gli indifferenti nelle parole dell'autore

Ho iniziato a scrivere Gli indifferenti a sedici anni e mezzo (ottobre 1925). “La giovane letteratura indifferente” è l’argomento che dovrei trattare qui. Questa giovane letteratura appare in Italia un po’ più tardi, ovvero nel 1929 con il mio romanzo. Ancora dieci anni dopo vengono pubblicati L’Etranger di Camus e La Nausée di Sartre. Il motivo per cui esiste questa differenza di tempo è semplice. Io ero malato, non sono andato a scuola. Sartre e Camus, loro ci sono andati... Ho cominciato con due idee, una letteraria, l’altra (diciamo) socio-psicologica e politica. La prima, quella letteraria, è questa: ero contemporaneo di Joyce e Proust, i quali avevano già detto tutto ciò che era possibile dire sulla realtà; avevano ampliato il concetto di realtà al di là di ogni tradizione. Inventari immensi, colossali: non vi era più nulla da dire sulla realtà... Bisognava reagire. La mia reazione fu di scrivere un romanzo che fosse contemporaneamente dramma e romanzo. Volevo fondere la tecnica della tragedia (che considero la massima forma letteraria) con quella del romanzo, così come ne avevo intravisto la possibilità nell’opera di Dostoevskij, opera teatrale e romanzata. Il problema de Gli indifferenti è estremamente complesso e prende spunto da Dostoevskij: nei Fratelli Karamazov, Ivan dice: “Dio non esiste, tutto è permesso.” Io, al contrario, all’età di diciotto anni, dico che se Dio non esiste, non si può fare nulla e “fare”, nella vita, signiica agire. In un romanzo, diventa uccidere. (Nel mio romanzo uccidere l’amante della madre.) Ma a ciò non vi è alcuna giustiicazione superiore. E il mio personaggio dimentica di caricare il revolver... Incidente tecnico o, in chiave psicanalitica, défaillance dello spirito?... Il problema – ed ecco la mia seconda idea – era dunque l’azione dell’intellettuale: mancando un riferimento assoluto, può l’intellettuale, agire da un punto di vista politico, sociale e privato? Alcune delle soluzioni proposte allora forse non sono quelle giuste: ad esempio, ne Les Caves du Vatican, Gide ci propone la scena seguente: un individuo viene gettato dalla porta di un treno in corsa, diretto a Roma, da un uomo che non conosceva neanche lo sfortunato viaggiatore, ma che cercava l’azione. O meglio, l’azione gratuita. È possibile agire senza una giustiicazione morale? Molti hanno cercato questa giustiicazione in un partito, il partito comunista, ad esempio. Malraux, recatosi in Cina per tenere una conferenza, ha visto Borodin agire in nome del comunismo. Ha scritto La condition humaine in cui vediamo alcuni cinesi farsi bruciare vivi dentro delle locomotive, in nome del comunismo.
D’altro canto c’è Nizan che ha, anche lui, aderito al partito per poi lasciarlo alla vigilia della guerra: non accettò mai il patto germano-russo, un rospo impossibile... Il problema dell’azione. Non sono un uomo di azione. Agire, mi piacerebbe, ma preferisco scrivere. Quindi, ho descritto tutto ciò negli Indifferenti. Sono sempre tentato da questo problema e ho senz’altro tendenza a pormi dei problemi. Ma dopo Gli indifferenti ho trascorso un lungo periodo di indifferenza. Avevo esaurito una esperienza, non avevo più nulla da dire, non ho più fatto molto...

Alberto Moravia, “La giovane letteratura ‘indifferente’” in Il pericolo che ci raduna, Milano, Franco Angeli Editore Srl, 1986

Il primo film

Sulla copertina dell'edizione dei Classici Contemporanei degli Indifferenti campeggiano Tomas Milian e Claudia Cardinale: il frame è tratto dal primo lungometraggio tratto dal romanzo e diretto da Francesco Maselli nel 1964. Milian e la Cardinale vestivano i panni dei due protagonisti, Michele e Carla, mentre Leo Merumeci era interpretato da Rod Steiger, Mariagrazia, la madre, da Paulette Goddard e Lisa, ex amante di Leo, da Shelley Winters. Vincitore del nastro d'argento alla migliore scenografia, il film è da ricordare anche per la splendida fotografia, fortemente chiaroscurale, di Gianni Di Venanzo (che aveva all'attivo una lunga serie di capolavori con alcuni dei massimi registi italiani) che intendeva dare alle scene un'atmosfera “tragica, cadaverica, degenerata”, nel rispetto del romanzo. L'obiettivo della pellicola, così come quello dell'opera letteraria, era di ritrarre lo stato di apatia dei giovani fratelli Ardengo, la prigionia della mentalità borghese e la corruzione morale degli adulti, tutti fattori che avevano reso possibile il consenso italiano al fascismo ed erano specchio, nell'orizzonte familiare, dello sfacelo di un intero paese.

Del libro, rimane la sensazione di una tragedia costante, l’immobilità dei personaggi che subiscono la vita, più che viverla, e un’apatia che priva di ogni valore ed etica, e lascia gli individui in balia della volontà altrui.

La bottega di Hamelin

Il secondo film

A distanza di più di cinquant'anni dalla prima riduzione cinematografica e a trenta dallo sceneggiato televisivo in due puntate (diretto da Mauro Bolognini e interpretato da Liv Ullman e Peter Fonda), la settima arte torna a confrontarsi con il capolavoro di Moravia. Leonardo Guerra Seragnoli, infatti, ha scelto di riportare sullo schermo l'opera prima dello scrittore romano ma trasponendola ai giorni nostri. Nei panni dei protagonisti questa volta abbiamo Beatrice Grannò e Vincenzo Crea, mentre Valeria Bruni Tedeschi è la madre Mariagrazia, Edoardo Pesce l'amante Leo e Giovanna Mezzogiorno interpreta Lisa. Anche questa volta sono evidenti le tematiche centrali del romanzo: la meschinità e l'ipocrisia della società, soprattutto di quella borghese, e le atmosfere asfittiche di una Roma che pare immutata, nel suo animo, dagli anni ’20. A proposito di Roma, le riprese sono state effettuate in un elegante appartamento dei Parioli, il quartiere dove era nato lo stesso Moravia.

Moravia descriveva un’epoca e una sensazione di oppressione quasi esistenziale, uno stato d’animo molto attuale oggi, quando le forze della destra avanzano. È la storia di una famiglia che nel 2019 ha perso tutto e cerca di restare a galla ad ogni costo.

Il regista Leonardo Guerra Seragnoli

Alberto Moravia