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— Parola all'autore

Lei non sa chi sono io! Con Piero Trellini

Lei non sa chi sono io! Con Piero Trellini

Lei non sa chi sono io! è un questionario semiserio per conoscere meglio i nostri autori. In questa puntata chiacchieriamo con Piero Trellini, autore per noi di Danteide.

Chi ti ha insegnato a leggere e scrivere?

I miei genitori. Poi la scuola, naturalmente. L’itinerario è stato piuttosto ordinario: Richard Scarry, gli albi Disney, il Corriere dei Piccoli, i fumetti di Bianconi, il mensile di Barbapapà, qualche Marvel e il manuale di Paperinik; poi il salto con Pinocchio, Cuore, un piccolo libro come La squadra dei diavoli rossi, fino a sfociare nei grandi classici: Dickens, Verne, Stevenson, Kipling, London, Swift e compagnia bella. Non prima però di essermi imbattuto, sul piccolo schermo, nella nouvelle vague nipponica della lunga serialità d’animazione (lo stampo era occidentale, come la Heidi tratta da Johanna Spyri o il Rémi proveniente da Senza famiglia di Hector Malot): anche quella per me fu narrativa.
Nel mezzo di questo tirocinio la lettura si è incrociata con la scrittura quando, a partire dalla prima media, il mio professore di lettere iniziò ad affidarci indagini monotematiche e inchieste d’attualità: arrivavo a superare anche le cento pagine arricchendo i testi con foto, ritagli, disegni e schemi. Per quanto non fosse scrittura pura per me rappresentò il primo grande esercizio legato a una organizzazione ragionata dei contenuti. Da allora ho sempre scritto. Male, ma l’ho sempre fatto.

Volevi fare lo scrittore già da piccolo?

Ero un bambino vivace e sensibile. La prima condizione ha assecondato la curiosità. La seconda l’ha modellata. Ero pieno di quaderni “monografici” dentro i quali trascrivevo resoconti di osservazioni astronomiche, schede dei personaggi di Alan Ford , catalogazioni varie, spesso naturalistiche e minerarie, gironi e pene dell’Inferno o regole manualistiche per aspiranti agenti segreti.
La scrittura non può essere un inizio. È più un epilogo. L’inizio della fine di un processo. Non puoi subito provare il desiderio di scrivere. Devi prima provare il desiderio. Trovare la materia: osservare, patire, incamerare e poi tentare di tradurre l’esperienza in un altro linguaggio. Se poi si ha anche l’occasione di vivere l’infanzia da spettatore l’atto di vedere diventa parte dell’apprendistato.
A portare i primi contenuti è stata l’adolescenza, grazie a due rivelazioni: l’inesorabilità del tempo e la labilità della memoria. Su queste due astrazioni si è sviluppato il grafico della mia realtà. Folgorato dal Grande freddo e dai film di conversazione (come quelli di Éric Rohmer e Denys Arcand), ho iniziato a scrivere quasi sempre di amicizie. Ero consapevole di vivere una stagione che sarebbe stata unica e, oltre a raccontarla, annotavo in appositi quaderni, più “tecnici”, telefonate in entrata e uscita, frasi, visite, persino citofonate.
A partire dalla maturità ho iniziato a studiare la notte. Nelle pause annotavo in un cartellone i movimenti del palazzo di fronte, la composizione dei singoli appartamenti, quella dei nuclei familiari, i nomi, gli orari, le abitudini, gli arredi e le automobili degli inquilini. Era un passatempo hitchcockiano, senza alcuna morbosità. Una sera dalla finestra seguii la conclusione di una cena organizzata da due giovani sposi: il momento di alzarsi, i saluti composti, il congedo formale. Seguii la coppia spostarsi nell’intimità della cucina. Dinanzi a una pila di piatti moglie e marito sembravano rievocare la serata mentre, qualche metro più sotto, gli ospiti uscivano dal portone scherzando in maniera sguaiata. Fu un punto di non ritorno e da allora la mia scrittura, per quanto incerta, guardò sempre dall’alto.

Qual è il primo libro che ricordi di aver amato da bambino, e l’ultimo libro che hai letto? 

L’ultimo letto è Short Introduction to the History of Human Stupidity di Walter B. Pitkin, che nel 1934 venne inserito nella collana “Avventure del pensiero” da Valentino Bompiani.
Il primo I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár. Me lo regalò mio padre. Lo amai all’istante. C’era tutto quello che cercavo allora nella vita. Una banda, un campo, dei codici di comportamento. Quando a scuola ci chiesero un libro sul quale prepararci lo scelsi senza esitazione. Nell’esposizione fui quasi impeccabile ma l’emozione mi fece inspiegabilmente dimenticare il nome del capo rivale: Franco Áts. Andando al posto, mentre attendevo il voto, tenni il libro tra i denti. Il segno dei miei incisivi è ancora sulla costa. E da allora anche quel nome è inciso in me.

Dove scrivi, come scrivi (a mano o su un computer) e in quali momenti della giornata?

Scrivo più che posso, tutti i giorni, in maniera regolare. Adotto ogni mezzo e questo rispecchia la corrispettiva fase di lavorazione. Se è preparatoria utilizzo grandi rotoli di carta per tracciare mappe, tabelle e grafici. Se è intermedia fogli A3 dove tratteggio a mano strutture, capitoli o personaggi. A queste fasi segue quella della scrittura che avviene al computer. Qui cartaceo e digitale trovano una loro convivenza: la stanza inizia a essere tappezzata di cartelli, disegni, elenchi e fotografie, le pile dei libri aumentano, i promemoria diventano centinaia. Nei mesi intensi la testa segue grovigli, logiche e collegamenti anche quando sono per strada. So che sono fallace, pertanto destinato a sbagliare sempre qualcosa. Quando mi trovo nella fase finale, dunque, lo sforzo maggiore è attutire gli errori. La fine del lavoro segna anche lo smantellamento scenografico che ha caratterizzato la stesura e quando inizio a staccare i fogli è una sensazione liberatoria.

Qual è la libreria che frequenti più spesso?

I libri attirano sempre la mia attenzione. Non devono necessariamente trovarsi in una libreria. Può essere una biblioteca, un banco per strada e anche un cassonetto. Spesso mi sono capitati tra le mani testi gettati via, firmati magari da Petrolini, Trilussa, Bonaparte e molti altri. Ho una lunghissima storia di libri “dissotterrati”. E di biglietti usciti fuori dalle pagine. Sono storie nelle storie. Una volta dentro un volume trovai nascoste decine di lettere inviate ai familiari dal prigioniero di un lager. Cose che non possono accadere in una libreria. Quelle che comunque vorrei frequentare più spesso sono distanti ed è un peccato: la luce emanata da certi librai non è così facile da ritrovare.

In viaggio porti con te libri di carta o eReader?

Rispondo come a un tavolo da gioco. Carta.

Dove preferisci leggere?

Il luogo non conta. Mi ritrovo a farlo nelle posizioni più precarie, anche in piedi appoggiato a una porta. Certo, il treno rimane la condizione ideale: fuori tutto scorre, dentro la vita è ferma. È una biblioteca in movimento. D’altro canto nell’Ottocento fu proprio la velocità a dirottare gli occhi terrorizzati dei viaggiatori verso le pagine di un libro.

In che ordine tieni i libri sui tuoi scaffali?

La mole impone regole essenziali. La narrativa è organizzata per provenienza, la saggistica per settori. È una organizzazione lineare che ho impostato fin dai tempi del liceo. Provengo dal mondo analogico, le azioni erano guidate da un ordine necessario. Io stesso da ragazzo ho letto i classici quasi cronologicamente, talvolta per paesi d’origine. Non esistevano i correlati o “i più commentati”.

Casa editrice o autore straniero molto amato?

Herman Melville e Fëdor Dostoevskij.

Un titolo che ti rappresenta o che vorresti aver scoperto tu.

Milk, eggs, vodka di Bill Keaggy, catalogazione logica di liste della spesa trovate per terra.

C’è un libro che ti ha salvato in un momento difficile, o che ha cambiato il tuo percorso di vita?

Se i libri sono un rifugio, allora rappresentano la salvezza sempre, nelle differenti fasi della vita. L’effetto salvifico lascia però maggiormente il segno nelle fasi di formazione. Tra l’adolescenza e i vent’anni i posti delle ancore spettano forse a: la Recherche (letta, senza assimilarla, quando pensavo di essere nato nel secolo sbagliato), Il processo (quando avevo bisogno di perdermi in una realtà indecifrabile) e Fiesta (quando, uscito dalla fase contemplativa ottocentesca, vissi una lunga stagione considerata impropriamente virile solo perché contraddistinta da bevute, sigari e understatement).

Un libro che hai regalato a una persona amata?

Il grande Gatsby, a mia moglie. Quando la incontrai iniziai a organizzare feste hollywoodiane pur di ritrovarla tra la folla e incrociare il suo sguardo. Gatsby fu il primo soprannome che mi diede.

Qual è il personaggio letterario che hai amato maggiormente?

Holden Caulfield, da ragazzo (nella traduzione di Adriana Motti). Qualche anno dopo Meaursault. Poi Arturo Bandini. Più avanti Barney Panofsky.

E quale il luogo della letteratura – anche fantastico – che vorresti visitare?

Gli anni venti parigini.

Quale libro secondo te si dovrebbe far leggere a scuola?

Quelli che già propongono mi sembra vadano benissimo: l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, la Commedia, poi Pirandello, Wilde, Svevo, Goethe, Calvino e gli altri. Forse si leggono pochi americani. Ma l’importante è trovare il primo varco (può essere Saint-Exupéry, Poe, Uhlman o anche un libraccio): una volta riusciti a entrare non si esce più.

Quale consiglio daresti a uno scrittore esordiente?

Per quanto possano servire i miei. Partire dalla fine. Lavorare sulla struttura. Scrivere. Riscrivere. Tagliare. Le ultime due fasi incessantemente, fino a quando l’editore non ti fa sentire al telefono il rumore della tipografia.
La condizione di chi scrive, comunque, è sempre quella di un esordiente

Facebook, Twitter, Instagram, o sei per il silenzio-social?

Non ho account personali, ma questo non significa che demonizzi o non consulti i social. Trascurarli per me è una scelta obbligata per non disperdere energie.

Un aggettivo per il tuo carattere e un carattere di stampa che ti piace.

Amichevole, spero, come Windsor. Ma alla fine scrivo sempre in Garamond, più fluido e illusoriamente definitivo

Copertina rigida o brossura?

Brossura per perdersi. La “rigida” per trovare.
L’elasticità permette a un libro di ricalcare le curve di una gamba, di un cuscino o di una valigia. In natura è l’adattamento a favorire la sopravvivenza. E il libro ha un’origine vegetale.
Una copertina dura, invece, nonostante la corazza, evita avventure e imprevisti, preferendo letture statiche, da tavolo. La pesantezza di questa orizzontalità si addice ai tomi enciclopedici (parte della mia generazione è cresciuta sfogliando una Treccani o il Grande dizionario della lingua italiana della Utet) dove lo spessore esterno, quasi monolitico, ha la funzione di proteggere il segreto racchiuso dentro miriadi di pagine di carta sottilissima. Penso alla carta “India”. Oppure a quella “Shuan”, ricavata da una miscela magica composta da corteccia di sandalo verde, paglia di riso, acqua di sorgente e ninfa dell’albero di kiwi.

Ci confidi un tuo sogno?

Dormo poco ma sogno continuamente. Intendo di giorno, a occhi aperti. È sempre stato così. Se abbandono l’idea di infilarmi una giacca scomoda è perché penso all’eventualità di dovermi lanciare da un treno. Se incontro una donna per lavoro la immagino bambina e mi chiedo come se ne andrà. Se incrocio un signore per strada quell’uomo prende vita propria dentro la mia testa: finisce sotto l’auto che sta arrivando, si salva, diventa amico della donna al volante, entra con lei in un bar, lui le confida un segreto e quel sapere cambia la vita della donna che non rientra più in macchina.
Quasi sempre la deriva della realtà nella mia testa sfocia in storie accidentali: l’anta di una finestra che cade per strada, un uomo che si avventa sui passanti, una scossa di terremoto che frantuma l’equilibrio quotidiano. Ciò che conta in questi sogni non è l’evento scatenante ma le conseguenze, le perdite, le reazioni. Sono cresciuto negli anni settanta: c’erano i film catastrofici e il terrorismo. Da allora osservo la realtà pensando alle potenzialità nascoste. Questo è il motivo per cui le visioni si dilatano, si concatenano, si biforcano, sfociando in storie ramificate dalle possibilità parallele. Tutto questo può sembrare terribile (viene chiamato maladaptive daydreaming, disturbo da fantasia compulsiva) ma ci convivo tranquillamente e non mi allontana mai dalla realtà. Anche perché resto un uomo che vede nella concretezza l’unico mezzo per realizzare i sogni.
 


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Piero Trellini