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— Parola all'autore

Giacomo Matteotti: un ritratto inedito a cent'anni dalla scomparsa

Giacomo Matteotti: un ritratto inedito a cent'anni dalla scomparsa

Professore Romanato, nel suo libro mette in chiaro una cosa sin dalle prime pagine: respinge l’immagine edulcorata e agiografica che una certa storiografia trasmette di Giacomo Matteotti, che fu un uomo duro e intransigente vissuto in tempi violenti. Com’è stata possibile – e in che modo lo è tuttora – questa distorsione prospettica?


La morte violenta, selvaggia, inflitta a Matteotti, quando aveva soltanto trentanove anni, lo ha trasformato in un mito e la mitologia spesso oscura la storia. Io ho cercato di ricostruire il profilo dell’uomo calandolo nei problemi del suo tempo, che non sono soltanto il nascente fascismo, ma, prima della guerra, il degrado civile, sociale e politico della campagna – il Polesine, la provincia di Rovigo – dove nacque nel 1885. Di fronte all’ingiustizia e al sopruso che dominavano nel mondo rurale ebbe la reazione di quella persona onesta che era. Divenne socialista e rivoluzionario, tradendo in qualche modo la classe sociale dalla quale proveniva, dato che era figlio di commercianti e proprietari terrieri decisamente ricchi. Si abituò quindi fin da giovane a vivere in un clima di lotta, che spesso coinvolse anche la sua persona nelle polemiche giornalistiche locali. Dopo la guerra visse nel periodo non meno turbolento del biennio rosso, fino allo scontro con il fascismo e con la persona stessa di Mussolini che alla fine gli costò la vita. Insomma, Matteotti è un personaggio vivo e tragico, che andava collocato sullo sfondo di una drammatica vicenda storica.

Che genere di studi compì Matteotti?


Si laureò brillantemente in legge, ramo penalistico, all’Università di Bologna e iniziò una promettente carriera universitaria pubblicando a Torino nel 1910 la sua tesi di laurea, rivista e ampliata, intitolata La recidiva. Poi prevalsero altri interessi e divenne politico a tempo pieno. Ma gli studi di diritto, che riprese durante la guerra, quando fu confinato a Messina per quasi tre anni, temperarono il suo massimalismo rivoluzionario, arginandolo all’interno di una solida inquadratura legalitaria. Col tempo divenne un riformista, molto vicino, sia pure con differenze non di poco conto, alle posizioni di Filippo Turati. Aggiungo che non ebbe mai nessuna simpatia per il comunismo che si affermava in Russia e fu sempre ripagato dai comunisti, Gramsci e Togliatti, con un netto rifiuto, appena temperato dal rispetto che suscitava la sua tragica morte. Quando fu ucciso, era ormai un socialdemocratico, come si dirà poi, cioè il difensore di una rivoluzione legalitaria, che voleva perseguire non cambiamenti violenti ma una evoluzione democratica, realizzata per vie parlamentari.   

Perché fu confinato a Messina?


Perché allo scoppio della guerra assunse una posizione di intransigente antimilitarismo e antinterventismo – fu anche processato per disfattismo – e richiamato alle armi, benché fosse stato riformato a causa della grave forma di tubercolosi di cui soffriva, per impedire che rimanesse nel Veneto, zona di guerra, in quanto “pericoloso sovversivo”. Fu spedito perciò in Sicilia all’inizio del 1916, e confinato in una caserma di Messina, dove rimase fino alla primavera del 1919. In quei tre anni riprese gli studi di diritto pubblicando saggi penalistici sulle maggiori riviste specialistiche del tempo. Quando rientrò in Polesine tornò a tempo pieno alla politica.

Cosa accadde dopo la guerra?


Tornò nel Polesine e divenne deputato nel 1919, rieletto nel 1921 e nel 1924, affermandosi presto come una delle figure più interessanti della politica italiana postbellica grazie a una indefessa partecipazione ai lavori parlamentari. Intervenne più di cento volte in meno di cinque anni. Quando iniziò il movimento fascista, fu uno dei primi a comprendere che questo non era un fatto passeggero ma che puntava a una rivoluzione e alla gestione dittatoriale del potere. Pochi allora se ne resero conto, anche nel campo socialista. Portò la sua opposizione in Parlamento con una serie di memorabili discorsi. Subì per questo ripetuti atti di violenza, fino alla decisione di eliminarlo fisicamente. Ciò che avvenne a Roma il 10 giugno del 1924. La sua morte provocò nel governo fascista un autentico momento di panico, che Mussolini riuscì a superare per l’incapacità delle opposizioni di cogliere l’occasione. Superata la crisi, Mussolini varò le leggi cosiddette “fascistissime” che smantellarono lo stato liberale e instaurarono la dittatura. È questo che trasformò il delitto Matteotti nello spartiacque decisivo della storia italiana di quegli anni.

Un documento che lei utilizza molto è l’epistolario con la moglie. Può dirci perché?


Matteotti sposò nel 1916 Velia Titta, sorella minore del famoso cantante Titta Ruffo. Velia era una donna assai diversa da lui, priva di interessi politici, molto religiosa, ma gli fu sempre disperatamente vicina. Il loro epistolario, sono rimaste più di seicento lettere, è una straordinaria storia d’amore e il documento forse più penetrante per comprendere l’uomo Matteotti, oltre l’immagine che trasmetteva il personaggio pubblico. L’analisi di queste lettere fa comprendere i costi immani che egli inflisse ai famigliari, e anche a se stesso, con la sua scelta di vita radicale, nella consapevolezza che il suo destino sarebbe stato con tutta probabilità un destino di morte. 

È passato qualcosa delle sue idee nella Costituzione del 1948?


Molto. Tutta la prima parte della Costituzione, quella che afferma i diritti fondamentali, riprende idee che erano state sue. Compreso l’art. 11, che ribadisce che l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.