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Nuove traduzioni. “I sotterranei del Vaticano” di André Gide

Nuove traduzioni. “I sotterranei del Vaticano” di André Gide

L'opera di rinnovamento del catalogo Bompiani passa, come lettori e lettrici sanno bene, anche dalla commissione di nuove traduzioni di opere amate e celebri e di autori e autrici importanti. Vi raccontiamo la storia dei Sotterranei del Vaticano di André Gide, ritradotto dal compianto Piero Gelli per i Classici contemporanei, di cui proponiamo parte dell'introduzione al romanzo.



Nel 1924 a Chicago, due ricchissimi studenti modello uccisero un ragazzino loro coetaneo, senza un apparente motivo, una vittima scelta a caso, per mettere in pratica idee di cui erano imbevuti (Nietzsche, il Superuomo) e compiere un atto al di sopra di ogni legge e di ogni morale. La stampa dell’epoca, soprattutto quella avversa ad André Gide, non mancò di collegare quel misfatto al protagonista dei Sotterranei del Vaticano, Lafcadio, divenuto nel tempo icona di ogni manifestazione di anarchismo morale, promotore idolatrato dell’atto gratuito, infantile e seducente, come probabilmente lo erano i due studenti americani. A nulla valse l’obiezione che il trattamento burlesco e parodico del romanzo non autorizzasse affatto una lettura in chiave positiva e realistica del protagonista legato come tutti gli altri personaggi a una dislessia di comportamento che la tonalità farsesca di tutta la trama evidenzia; non romanzo quindi, come tende subito a sottolineare l’autore, bensì sotie.

Tuttavia Lafcadio non nasce e non muore con questo romanzo: figura fantasmatica di una nebula del piacere, proiezione del desiderio, appare di sottecchi nelle prime opere simboliste di Gide, poi più apertamente nei tanti altri adolescenti gidiani che abbiano la sua stessa venustà e il suo stesso incosciente edonismo. A corroborare la verità di questo assunto si può ricordare che, in un primo tempo, Gide voleva affidare il suo nuovo romanzo, I falsari, al personaggio guida di Lafcadio; idea subito abbandonata ma che tuttavia conferma la persistenza, nel suo immaginario psichico e letterario, di un avatar amato quanti altri mai, destinato infine a morire letterariamente forse soltanto nella sua esistenziale incarnazione: il rapporto amoroso col suo pupillo, il diciassettenne Marc Allégret.

Soltanto dopo la prima guerra mondiale, negli anni venti, i cosiddetti anni folli, Gide acquista una rilevanza nazionale e internazionale: dalle stanze decadenti dei parnassiani, dai salotti elitari dei simbolisti, dalle “veglie” di Mallarmé, dove il successo era disprezzato, i romanzi mal considerati, una voce esce fuori dal quel coro, mormora parole di ambigui richiami, di affrancamento, prima velate da simboli e miti, per diventare poi affermazioni sempre più dirette di libertà, negli slanci e nei lirismi appassionati dei Nutrimenti terrestri e nel gesto outrée, “nietzschiano” del protagonista dei Sotterranei. Di quello scrittore ormai cinquantenne, ma che i giovani adorano, si acquistano le opere e le si scoprono. Diventa “il contemporaneo capitale”, secondo una definizione attribuita a torto a Malraux, una guida, un capo; ma per gli avversari agguerritissimi, un cattivo maestro, un demonio.

La grande influenza che per decenni Gide ha esercitato sulla cultura francese, e poi dovunque, dall’America al Giappone, la si deve, in questa prima fase, soprattutto, alla grande capacità di “manipolare” i suoi maestri secondo come gli convenga, maestri tutti di fatto invisi, per il loro spirito sostanzialmente antifrancese, al nascente rigurgito di nazionalismo oltranzista. Così Gide entra subito nel giro dei corruttori della gioventù e del pensiero francese, prima ancora che esploda, perfino ostentata, la sua omosessualità. In questo periodo, numerosi sono gli scritti e le conferenze su Nietzsche, da cui si capisce dove nasca l’ammirazione: per la volontà, perseguita fino alla follia, di arrivare alla conoscenza di sé, proprio fino in fondo, ai limiti della ragione; una ricerca inesausta e travolgente. Gide dissemina i suoi trattati, i suoi poemi in prosa, i suoi denegati romanzi di frasi e di eco nietzschiane, che affascinano intere generazioni, finché è lui stesso, il primo, insofferente a ogni classificazione, a ogni etichetta, a ribaltarne il fervore in derisione. 

Gide, è noto, dichiara di aver scritto un solo romanzo, I falsari, che pubblica alla metà degli anni venti; tutto quello che ha elaborato finora di vagamente narrativo, è definito con altro termine: trattato, recit, sotie e via di seguito. Ma a un lettore nostro contemporaneo, abituato a leggere ogni tipo di scrittura, che non sia poesia o saggio specifico, sotto la dicitura di romanzo (soprattutto per adescamento editoriale) queste etichette non diranno più nulla; tuttavia, nell’ambiente simbolista in cui cresce Gide, l’avversione al romanzo, considerato come genere popolare e volgare, con i capostipiti Hugo e Balzac in testa, è un sentire comune, che in molti intellettuali francesi resterà perenne, anche quando quel mondo decadente, ovattato, stanco, da Belle Époque afflitta, finirà sepolto sotto i cannoni e i morti della grande guerra.

I sotterranei del Vaticano è pubblicato, prima in rivista, nella Nouvelle Revue Française, in quattro puntate, dal gennaio all’aprile del 1914; poi nell’estate dello stesso anno in volume; ma lunga e travagliata ne è la redazione, puntualmente seguita dall’amico Jacques Coupeau. Nel Diario, insofferenza e slancio si alternano alla faticata stesura, finché in data 24 giugno:

Finito ieri I sotterranei. Sicuramente dovrò ancora rivederlo dopo che l’avrò dato a leggere a Coupeau e in bozze. Strano romanzo; inizio a esserne ossessionato. Non sono ancora convinto che sia finito, e faccio fatica a non pensarci più. 

In realtà ci pensa e soffre per il silenzio con cui l’opera è accolta, un vero fiasco, mentre l’autore vi aveva investito il suo tentativo più avanzato di narrativa fictional o romanzesca che sia: scarsi, impercettibili sono qui i riferimenti autobiografici, assai più presenti ed evidenti invece nei Falsari, che uscirà nel 1925 e che lui continuerà a considerare come il suo unico romanzo. Ma se l’attenzione è poca, misere le vendite, crescente è l’ostilità della critica di destra e cattolica; anche degli amici, finora, più vicini, come Francis Jammes e Paul Claudel. Quest’ultimo gli impone di togliere dal romanzo la citazione tratta da un suo dramma e conclude affermando che il libro gli aveva dato quella stessa spaventosa desolazione provata alla lettura del Candide di Voltaire. Il che pare l’unica affermazione felice di tutta la pesante querimonia, perché, effettivamente, qualcosa della picaresca leggiadria del Candide si può rintracciare nella sotie gidiana. 

Gran parte dell’ostilità che il romanzo raccolse nasce dal suo intreccio satirico e anticlericale fondato su un fatto vero accaduto a Lione alla fine del 1892: un’escroquerie, una truffa ben congegnata, messa in piedi da astutissimi furfanti ai danni di ricchi e devoti cattolici creduloni, ai quali, per estorcere loro più danaro possibile, venne fatto credere che il papa Leone XIII era stato rinchiuso nelle segrete del Vaticano da cardinali affiliati alla massoneria e sostituito da un sosia, un falso papa, che emetteva abiure, scriveva encicliche, riceveva i fedeli; insomma faceva il suo mestiere. La colossale truffa era stata descritta, con dovizia di dettagli, in un libro di tale Jean de Pauly, uno studioso ritenuto filosemita, Il Falso Papa, apparso nel 1895 e subito irreperibile; fatto sparire, anche perché, sembra, contenesse nomi e cognomi di truffatori e vittime.

Gide, però, a chi più volte lo accusava di essersi ispirato a quella fonte ha sempre negato di conoscere perfino il nome dell’autore e di non aver mai letto quel testo; non c’è motivo di non credergli, asserendo, in varie interviste e colloqui, di conservare da sempre articoli e ritagli di giornali che raccontavano di quell’episodio: e di essere, quindi, partito da un fatto reale. L’unico personaggio, invece, a suo dire, “puramente immaginario” era Lafcadio. Eppure, anche a proposito del suo “eroe”, si cercano e si trovano riferimenti. Ma come si è già detto, Lafcadio viene da più lontano, non ha bisogno di controfigure, il fascino perverso di adolescente perpetuo nasce da malie filosofiche e rivisitazioni mitologiche, commiste dal fiabesco greco e biblico; un po’ Narciso, un po’ Neottolemo, un po’ figlio prodigo, un po’ Natanaele. 

Gide ambienta la sua sotie in un contesto sociale che ben conosce: è il suo, l’opulenta borghesia francese: nobiltà magari secondaria, proprietari terrieri, imprenditori di paccottiglie, professionisti d’alto borgo, prelati vanitosi, scrittori di carta in cerca di ricono- scimenti accademici. Sono maschere, a mio parere molto prossime alla maschere nude di Pirandello, anche se prive del tormento dell’identità, più saltimbanchi ideologici, fantocci di rango. Invero, la prima fugace impressione è quella d’essere dentro una commedia, con la stessa sequenza di coup de théâtre: improbabili agnizioni, sordidi ritrovi, situazioni grottesche, passaggi segreti. Lo scenario è simile, come l’epoca, mentre il ritmo delle casualità, l’accumulo frenetico degli eventi, ne sancisce la finzione e definisce il genere: parodia, farsa, insomma sotie. Solo che, nei Sotterranei, il disegno è più sottile, non è solo questione di corna o similia, i temi sono diversi, più intellettuali, i bersagli più nobilmente satirici. E non si tratta solo di farsa, perché c’è Lafcadio a destabilizzare, con la sua natura denaturata, col suo gesto inconsulto, appunto gratuito e, soprattutto le conseguenze che tal gesto comporta, a fornire una chiave di lettura più articolata e complessa che non quella di un divertissement satirico.

Molti anni dopo, vicino alla morte, Gide si ricorderà, consapevolmente, del suo lontano lafcadiano monologo, se scriverà:

Non penso senza terrore a tutte quelle “novità” che si vanno ammucchiando nella Biblioteca Nazionale. Giorno verrà, e forse non lontano, in cui qualche spaventoso cataclisma ridurrà tutto in cenere. Ciò che sopravvivrà non sarà necessariamente il meglio.

C’è un filo, lungo quasi mezzo secolo, tra le considerazioni impulsive di Lafcadio e le meditazioni senili del vecchio scrittore, nel fremito di paura che se ne coglie: le parole del suo amato Montaigne domani potrebbero non parlare più; timore che è anche il nostro: che la letteratura un giorno smetta di significare, come qualcosa di precario. E questa precarietà la si legge nelle maschere ghignose, negli intrecci intrecciati, nelle situazioni più assurde di questo romanzo, che vuole come rispondere alle provocazioni di un nichilismo europeo e chiudere in farsa quell’epoca per aprirsi a un’altra che si preannuncia certamente non migliore.

Forse Lafcadio ha perso quasi del tutto il suo fascino di ribelle, come qui la satira le sue punte più acri; intatto però rimane la bellezza di un testo la cui scrittura è limpida e ambiguamente allusiva; dove il classicismo di fondo della lingua non frena e smorza il piacere e il divertimento della lettura; intatto come il senso di libertà e l’amore per la letteratura.

André Gide