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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Mario Fortunato

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Mario Fortunato

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Mario Fortunato: autore e traduttore, per Bompiani ha pubblicato la maggior parte delle sue opere e curato la traduzione di tutti i racconti di Evelyn Waugh e Virginia Woolf.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Non ho mai deciso di essere un traduttore. Il primo libro che ho tradotto, Il pane nudo del marocchino Mohamed Choukri lo lessi alla fine degli anni ottanta a casa di Paul Bowles, a Tangeri. Conobbi anche l’autore e fui colpito dalla sua simpatia. Il libro era straordinario. Una decina di anni prima, aveva avuto un enorme successo negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Germania, in Francia (in francese lo aveva tradotto Tahar Ben Jelloun). Al ritorno in Italia scoprii con sconcerto che da noi era inedito, perciò lo suggerii a un piccolo editore che adesso non c’è più, Theoria. Loro erano interessati a farlo a patto che io lo traducessi. Dissi di sì anche per un motivo eccentrico: a parte la bellezza del libro e la simpatia per l’autore, avrei dovuto tradurlo dall’inglese (nella versione di Bowles) e contemporaneamente dal francese (Ben Jelloun), perché non c’era un originale arabo in quanto era un testo vietato: i diritti internazionali erano appunto dal francese e dall’inglese. Sembrava fatto apposta per me: il francese mi veniva dalla famiglia materna, mentre l’inglese era la lingua che avevo scelto come mia. Così è nato il piccolo traduttore che è in me. E credo che quel libro meriterebbe di tornare in libreria: è un’idea che lancio alla Bompiani.

Qual è il prossimo che vorrebbe tradurre?

Dopo Choukri, mi sono sempre misurato – ma è un puro caso – con grandi classici. Maupassant, Virginia Woolf, Evelyn Waugh, il difficilissimo Patrick White. Sto ora lavorando su di un testo inedito in italiano di Evelyn Waugh. Come (quasi) sempre, è molto divertente.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Non c’è che uno strumento, in fondo, ed è la propria lingua – l’italiano nel mio caso. Le brutte traduzioni sono tali perché chi traduce usa un brutto italiano.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Ha influito su di me come scrittore. Il lettore è sempre quello dall’adolescenza: curioso, onnivoro, eclettico, intransigente, idiosincratico. Come autore, invece, l’esperienza della traduzione ha avuto un riflesso profondo: da Maupassant ho cercato di prendere l’asciuttezza, l’andare al sodo; dalla Woolf la complessità; da Waugh il sense of humour. Ognuno di questi grandi scrittori mi ha insegnato qualcosa di prezioso, e ne sono loro grato.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce?

Forse ho già risposto a questa domanda. Dovendo sintetizzare: gratitudine.

E con gli editori per cui traduce?

Sono un po’ un carabiniere: fedele nel tempo. Ho avuto un rapporto profondo con l’Einaudi e da una dozzina d’anni ho un analogo rapporto con Bompiani. Non riuscirei – credo – a tradurre per un altro editore. Tempo addietro, si era parlato di un Meridiano dedicato a un inglese del Novecento, ma poi non se n’è fatto niente anche per colpa mia. Ho bisogno di avere un interlocutore costante.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Come ho detto, il lavoro di traduzione non ricade nel dominio della carriera, o della professione. È piuttosto un meraviglioso passatempo – peraltro molto utile – tra un mio libro e l’altro. Il ricordo più gratificante riguarda i racconti di Virginia Woolf: appena il libro uscì, Pietro Citati scrisse un enorme articolo in cui mi lodava fin dal primo rigo. Mi sentii molto importante. Per me era più che aver vinto un premio.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Un uomo solo di Christopher Isherwood, ma purtroppo esiste un’eccellente traduzione italiana e non vedo il motivo per ritradurlo.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Direi di no. Anche se, rispetto a venti o trent’anni fa, le cose sono molto migliorate. Davvero molto: sia in termini economici sia in termini culturali.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Lavorare.

Mario Fortunato