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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Marco Piani

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Marco Piani

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Marco Piani, traduttore per noi di Homo Deus, 21 lezioni per il XXI secolo e Sapiens. La nascita dell'umanità di Yuval Noah Harari, di Scrittori! di Katharina Mahrenholtz e Dawn Parisi (di cui ha curato anche l'adattamento al pubblico italiano, come potete leggere qui) e Schottenfreude. Nuove parole tedesche per la condizione umana di Ben Schott.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Ai tempi del master in Editoria a Bologna, le lezioni tenute dal professor Eco sulla traduzione – i cui insegnamenti sono contenuti nel saggio che dà il nome a questa rubrica – furono tra quelle che mi piacquero di più: la teoria applicata a un lavoro concreto, l’irriducibile artigianalità di un saper fare professionale, la lussureggiante varietà del mondo vista attraverso il caleidoscopio interlinguistico. Ma non decisi allora di diventare traduttore. A quel tempo il mio obiettivo principale era lavorare in una casa editrice, cercando di imparare a fare buoni libri pur in tempi non facili per questo settore. Una volta sbarcato alla Mondadori, dove ho cominciato a lavorare, appena mi è stato possibile ho affiancato all’attività editoriale quella di traduzione, ritenendola un tassello indispensabile nella costruzione del mio curriculum.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Il primo in assoluto è stato Colazione da Tiffany. Ma questo accadeva qualche mese prima che mi iscrivessi al master. Fu un esperimento. Svolgevo il servizio civile presso la Cineteca di Bologna ed ebbi la fortuna di occuparmi della loro importante collezione di locandine, tra cui quelle celeberrime di Silvano Campeggi, che col nome d’arte Nano ha firmato i manifesti dell’epoca d’oro di Hollywood: Casablanca, Via col vento, Cantando sotto la pioggia, West Side Story, Ben Hur, e anche Colazione da Tiffany. Mi venne voglia di rivedere proprio quest’ultimo classico… insomma, la storia, così abilmente sospesa tra poesia e disincanto, la trovai perfetta, con un repertorio di battute riuscitissime. E tuttavia continuava a ronzarmi nella testa una parola, usata in uno degli scambi centrali tra Holly e l’amico Paul (che lei chiama Fred), abbastanza rara, e un po’ goffa, almeno per le mie orecchie dei primi anni Duemila, e cioè “paturnie”. Adoro tutte le parole e in particolare quelle che, per una ragione o per l’altra, non appartengono al lessico comune catturano sempre la mia attenzione e stimolano la mia brama di approfondimento (da qui, anni dopo, l’avventura divertente e un po’ folle di tradurre Schottenfreude di Ben Schott). E quindi mi dissi: chissà cosa traduce quel curioso “paturnie”? E già che c’ero mi risolsi ad andare direttamente alla fonte primaria, ovvero la famosa e omonima novella di Truman Capote da cui Blake Edwards ha tratto il film. È un testo molto breve, inoltre di Capote non avevo ancora letto nulla… e fu così che feci alcune scoperte interessanti. Per esprimere l’ansia acuta e inspiegabile che ogni tanto affligge la protagonista, Capote si era inventato addirittura un neologismo – “mean reds”, cioè il nostro paturnie, contrapposto a “blues”, la tristezza normale – basato sulla contrapposizione cromatica che la lingua inglese e la creatività dell’autore hanno reso possibile. Per chiarezza riporto qui lo scambio:

[Holly Golightly:] “You know those days when you get the mean reds?

[nel film Paul Varjak, nel libro “Fred”]: “Same as the blues?”

[Holly Golightly]: “No”, she said slowly. “No, the blues are because you’re getting fat or maybe it’s been raining too long. You’re sad, that’s all. The mean reds are horrible. You’re afraid, and you sweat like hell, but you don’t know what you’re afraid of. Except something bad is going to happen, only you don’t know what it is. You’ve had that feeling?”

[nel film Paul Varjak, nel libro “Fred”]: “Quite often. Some people call it angst.”

La duplice rinuncia del traduttore italiano sia al cromatismo sia al neologismo mi colpì e per la prima volta, mi chiesi come avrei risolto io quel passo, professionalmente – e da lì tradussi l’intera novella di Capote. Il passo in questione è nient’affatto banale, e la soluzione trovata negli anni sessanta esemplifica bene il tentativo di trovare un equilibrata composizione di esigenze spesso non conciliabili, come il rispetto della lettera e/o dello spirito dell’originale, la restituzione nella propria lingua in una forma che sia felicemente creativa e non meramente didascalica, il desiderio o meno di compiacere le aspettative dei lettori. In questi casi, torna sempre utile potersi confrontare con le soluzioni trovate in altre lingue, di cui si abbia qualche competenza. Anche in questo caso si fanno alcune scoperte interessanti. Per esempio in tedesco è:

[Holly Golightly:] “Weißt du, kennst du die Tage, wo du das rote Elend hast?

[nel film Paul Varjak, nel libro “Fred”]: “Genau wie das graue Elend?”

[Holly Golightly:] “Nein”, sagte sie langsam. “Nein, das graue Elend ist, weil man zu dick wird oder es zu lange regnet. Man ist traurig, das ist alles. Aber das fiese rote ist schrecklich. Man fürchtet sich, und man schwitzt wie ein Schwein, aber man weiß nicht, wovor man sich fürchtet. Bloß, dass etwas Schlimmes passieren wird, aber man weiß nicht, was. Hast du das Gefühl schon mal gehabt?”

[nel film Paul Varjak, nel libro “Fred”]: “Ziemlich oft. Manche nennen es Angst.”

La traduzione tedesca più recente ricorre al modo di dire “das graue Elend haben” che è equivalente al nostro “essere giù di corda” / “vedere tutto nero”, o per meglio dire “grigio” (= grau, in tedesco), e rispetta sia il neologismo di Capote sia il cromatismo rosso sostituendo “grau(e)/grigio” con “rot(e)/rosso”. Quindi il nostro “Sapete quei giorni, quando vi prendono le paturnie?” in tedesco diventa “Sai quei giorni in cui vedi tutto rosso?”.

Che è poi anche la soluzione spagnola, almeno nella versione cinematografica (che è quella che ho a portata di tastiera):

[Holly Golightly:] “¿Conoce usted esos días en los que se ve todo de color rojo?”

[nel film, Paul Varjak, nel libro “Fred”]: “¿Color rojo? querrà decir negro”

Anche in spagnolo l’espressione “ver (todo de color) rojo” è un neologismo, e quindi anche questa traduzione rispetta molto da vicino l’originale inglese. Purtroppo una soluzione del genere non è praticabile in italiano sic et simpliciter perché “vedere rosso” nella nostra lingua ha un significato metaforico fuorviante, e cioè quello di “essere molto arrabbiato”.

Si può dunque far di meglio di “paturnie”? Sì e no. Sì, nel senso che Vincenzo Mantovani ha recentemente, e ottimamente, ritradotto Breakfast at Tiffany’s come la novella di Capote meritava. No, nel senso che la nuova soluzione – Mantovani sostituisce “paturnie” con “strizza” – non mette in discussione la strategia traduttiva precedente, costretta ad ammettere i limiti imposti dall’italiano stesso che, in questo caso, non consente soluzioni alla tedesca o alla spagnola. Per fortuna esiste anche la strategia della compensazione, come ci insegnava il Eco nelle sue lezioni, che permette alla lingua di arrivo di recuperare sfumature, giochi di parole, inventività sconosciuti alla lingua di partenza e capaci di far sì che la traduzione non sia un’esperienza comunicativa impoverita rispetto all’originale. Comunque, iniziare dall’esperienza del limite fu assai formativo: accese la curiosità, illuminò la consapevolezza.

Ma sto divagando. E in effetti non ho ancora davvero risposto alla domanda iniziale, me ne scuso e rimedio subito. Il primo libro che ho tradotto, nel senso che sono stato contrattualizzato per farlo, è una spy-story ambientata nella seconda guerra mondiale: Operazione Nettuno di Arno Baker. Un libro avvincente, che prende spunto da fatti storici plausibili (che all’epoca ignoravo completamente), ma senza nessuna velleità letteraria. Ho quindi cominciato da questioni linguistiche di tutt’altro tipo rispetto a quelle che possono scaturire dal confronto con un grande autore, ma ritengo che partire dalla letteratura commerciale sia stata una buona palestra, un (primo) banco di prova, per il quale sarò sempre grato a Sergio – o meglio, Sergione, così lo chiamavamo tutti in Mondadori – Altieri che me lo offrì.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Il secondo volume del graphic novel tratto dal bestseller Sapiens di Yuval Noah Harari. Con il primo volume Sapiens. La nascita dell’umanità si è inaugurato un progetto ambizioso ma soprattutto innovativo, perché credo sia la prima volta che con un graphic novel si riesce a tradurre in una storia per immagini concetti complessi e teorie elaborate, che talvolta sono ancora oggetto di discussioni tra gli esperti. Le immagini – simboliche, pittoriche, fotografiche, cartografiche, ecc… – e il mondo dei colori hanno da sempre esercitato su di me un enorme fascino: difficile è stata la scelta tra questo mondo e quello delle parole. Per mia fortuna, i due ambiti trovano una felice convergenza quando mi occupo, come in questo caso, di libri illustrati.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Senza dubbio la rete. Mi è capitato di pensare, specie quando traducevo i primi volumi, come facessero i traduttori senza la possibilità di accedere alla rapida, multiforme e sterminata banca dati rappresentata da Internet. Ti occorre rivedere fotogramma per fotogramma l’ultimo discorso di Ceauşescu per cogliere la reazione emotiva del pubblico e la mimica facciale del dittatore oggetto di una scrupolosa e brillante analisi dell’autore del libro che stai traducendo? Cerca in rete e troverai il passaggio video che ti interessa. Hai bisogno di visualizzare una mappa di Parigi agli inizi del XX secolo per verificare la correttezza di una ricostruzione storica? Cerca in rete e troverai qualche archivio che ha un’intera collezione di cartografie urbanistiche della Ville Lumière dalla fondazione a oggi. Non riesci a trovare documenti scritti o repertori che documentino un effimero modo di dire giovanile tedesco degli anni ottanta? Cerca in rete e troverai con la ricerca per immagini un portale che vende magliette che riproduce quel modo di dire per i cultori vintage del periodo e delle sue espressioni gergali. E così via, di fatto senza limiti, o meglio, con limiti sempre meno percepibili. Ovviamente la ricerca in rete non sempre dà risposte in tempi rapidi, a volte occorre scavare a lungo nelle miniere di informazioni disponibili per estrarre la pagliuzza d’oro che ci serve. Quel che risulta essenziale, tuttavia, è saper porsi le domande giuste, e queste non possono che nascere dalla propria cultura personale, alimentata da tanti, buoni, vecchi libri (ancora, e per fortuna), esperienze personali, una curiosità onnivora e una profonda, profondissima umiltà.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Siamo così abituati a leggere in traduzione che, spesso, la gente quasi non ci fa caso e quando legge in traduzione crede davvero di attingere l’opera originale senza filtri. E questo è semplicemente impossibile anche con la migliore delle traduzioni: inevitabilmente, la lingua di provenienza si distingue da quella d’arrivo per la diversa materia sonora, la lunghezza delle parole, il modo di costruire le frasi, i modi di dire, ecc… Quindi sì, traducendo e leggendo saggi sull’arte del tradurre, ho acquisito una consapevolezza che mi influenza come lettore. Direi che è quasi sempre un bene: per le lingue che non conosco è l’occasione per ricordarsi di sapere di non sapere e perciò di imparare qualcosa che è completamente inedito, mentre per le lingue che conosco è uno strumento in più per apprezzare/confrontarsi con il lavoro di traduzione fatto da altri e un’occasione di conoscenza ulteriore degli universi linguistici con cui ho qualche familiarità. C’è solo un difetto: a volte tutto questo può distrarre dal flusso della lettura e portare molto lontano!

In realtà si tratta di un difetto solo in apparenza perché, come ci ha insegnato il filosofo e semiotico Charles S. Peirce questa “fuga degli interpretanti”, ovvero il fatto che qualsiasi segno possa innescare una catena di interpretazioni e traduzioni teoricamente infinita, è una caratteristica strutturale della comunicazione. Non è raro infatti che grazie a questo fenomeno, nella pratica della traduzione, si arrivi dove si vuole arrivare percorrendo strade apparentemente molto divaganti.

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Poiché finora non ho tradotto autori letterari non mi è mai capitato di instaurare quel tipo di rapporto complice, forse a volte anche un po’ conflittuale, tipico di chi traduce letteratura non commerciale: magari in questa constatazione c’è un pizzico di invidia, a ogni modo il rapporto con gli autori di saggistica tende a essere molto professionale e, nel caso di un autore di fama internazionale come Harari, si è parte di progetti editoriali molto vasti che abbracciano allo stesso tempo più editori, lingue e nazioni: si stringono quindi rapporti con l’autore ma anche con lo staff che lo coadiuva. È bello sentirsi parte di una squadra così ampia per chi fa un lavoro necessariamente solitario come quello del traduttore.

E con gli editori per cui traduce?

Come dicevo all’inizio di questa intervista la mia attività di traduzione è una conseguenza del mio lavoro editoriale quindi mi sono sempre trovato nella condizione di tradurre per l’editore presso il quale ero occupato, e pertanto il rapporto è sempre stato molto positivo. Mi è stato offerto di tradurre per altri, ma per ragioni professionali, ho dovuto declinare.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

L’anno scorso, quando ho vinto il Premio Francesco Gelmi di Caporiacco per la traduzione di Homo Deus di Yuval Noah Harari: se il lavoro del traduttore letterario è destinato a restare in ombra, per le fatiche del traduttore di saggistica si può parlare di notte polare, con cielo nuvoloso. Sono grato quindi agli organizzatori del premio, non tanto per il valore riconosciuto al mio lavoro quanto per l’aver previsto una categoria per la traduzione di saggistica (e anche di illustrati), così poco considerata, ancora.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Non sono pochi i libri con cui ho avvertito una consonanza speciale e spesso tra questi annovero libri della formazione adulta. Ma in realtà è spesso un libro letto nell’infanzia o da adolescenti, rimasto magari un po’ sepolto dai sedimenti culturali accumulati negli anni, che ci ha formati come persone e come lettori, e tra questi c’è sicuramente La storia infinita di Michael Ende, a cui la famigerata trasposizione cinematografica non rende per nulla giustizia, neppure per la sola metà del libro che rappresenta. Così immaginifico, avventuroso e filosofico, il capolavoro di Ende è anche un libro ricco di meravigliose invenzioni linguistiche. Non posso escludere, infine, che la bellezza fisica dell’edizione originale – la famosa edizione bicolore rossa e verde: essenziale per la corretta interpretazione del volume, non un capriccioso vezzo estetico – abbia lasciato anch’essa un’impronta duratura in quelle che poi sono diventate, da professionista, le mie inclinazioni editoriali. Di sicuro, come membro della società dei consumi, ha lasciato il segno quando avverto la necessità di fare acquisti d’impulso!

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Senza dubbio il ruolo del traduttore gode oggi di una considerazione migliore che in passato: una parte dei lettori, non maggioritaria, ma almeno significativa è innanzitutto consapevole del lavoro di mediazione svolto dal traduttore – e non lo giudica ingenuamente un inevitabile tradimento dell’originale! E questo è già qualcosa. Il fatto ulteriormente positivo è che si moltiplicano le occasioni di incontro con pubblici non specialistici che contribuiscono a far circolare il discorso sulla traduzione oltre i ristretti circoli di addetti ai lavori. A questa accresciuta considerazione del ruolo del traduttore non fa ancora seguito un trattamento economico adeguato, anche se va detto che un traduttore bravo e puntuale non avrà problemi a trovare committenti. E nella giungla dei lavori editoriali è comunque una delle situazioni migliori.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Di fare quanto prima qualche esperienza per editori seri e confrontarsi con chi già lavora da qualche tempo in questo campo. Al di là della eventuale “gloria” (di riflesso, quasi sempre) o della remunerazione (ragionevole, ma non tale da permettere facili arricchimenti), quello che deve piacere è il rapporto a tu per tu con il testo, parola per parola – privilegio di cui il traduttore è l’unico a beneficiare, oltre ovviamente all’autore –, un rapporto esclusivo che richiede una pazienza infinita e una dedizione molto generosa, da praticarsi in un isolamento che, a tratti, può indurre una certa alienazione. Detta così, potrebbe sembrare un po’ scoraggiante, ma ci sono anche vantaggi indiscutibili come la libertà di fare il proprio lavoro pressoché ovunque e con amplissima autonomia organizzativa e intellettuale. Quindi a un giovane traduttore darei innanzitutto il consiglio di valutare se per lui o lei è una strada che ben si adatta al proprio modo di essere e alle proprie aspettative di vita e professionali. In secondo luogo di farsi portavoce di autori ancora sconosciuti o non tradotti adeguatamente presso gli editori che possono essere interessati a queste segnalazioni: la ricompensa potrebbe essere quella, sempre molto apprezzata da un traduttore appassionato, di diventare la “voce” di autore per la propria lingua.