In occasione dei cinquant’anni dalla morte di John Steinbeck (1968) pubblichiamo tre libri che consentono ai lettori di scoprire o riscoprire l’autore nella sua veste di scrittore di romanzi (La perla, accompagnato da illustrazioni di Alessandro Sanna), reporter impegnato (Diario russo, con le fotografie di Robert Capa) ma anche padre affettuoso (Lettera a Thom sull’amore con le illustrazioni di Shout).
Abbiamo chiesto a Luigi Sampietro, curatore della collana I libri di John Steinbeck, un ritratto dell’autore che ha ricevuto il Premio Pulitzer nel 1940 e il Premio Nobel per la letteratura nel 1962.
Contemporaneo degli artisti americani della cosiddetta “generazione perduta”, John Steinbeck è un cavaliere errante che da quasi un secolo, e con grande seguito, percorre le avventurose strade della letteratura. I suoi romanzi non sono mai scomparsi dalle librerie, in Occidente come in Oriente; e il suo nome, ancora di recente, risultava essere il più famoso tra gli scrittori americani, esclusi i viventi, dentro e fuori degli Stati Uniti.
Era uno sperimentatore, Steinbeck, anche se non scriveva forzando le forme come i modernisti, ma in modo diretto e nella lingua colloquiale dell’uso quotidiano. Non scrisse mai un libro che somigliasse a quello precedente, mettendosi ogni volta nella posizione dell’esordiente atteso al varco con la seconda opera. Aveva però dalla sua, insieme alla forza dell’immaginazione, un dono prezioso. Era un romanziere che sapeva scrivere come un cronista e raccontava le sue storie col tono di chi fa conversazione, in salotto o al telefono.
C’era però sempre anche qualcosa di oracolare nel suo modo di esprimersi perché Steinbeck era cresciuto in un’epoca in cui, negli Stati Uniti, gli scrittori (come Sherwood Anderson e come Hemingway) portavano dentro di sé, fin da bambini , la cadenza e gli stilemi della Bibbia, soprattutto del Vecchio Testamento. Nel caso di Steinbeck la semplicità e la concretezza della prosa erano anche date, in filigrana, da un testo medievale, Le Morte d'Arthur di sir Thomas Malory. Questo libro è peraltro la matrice di tutte le storie che hanno come tema il rapporto dell’individuo con il gruppo. Steinbeck lo identifica con la nozione di falange (“phalanx”): uno per tutti e tutti per uno. Siano essi i cavalieri della Tavola rotonda, un manipolo di soldati, un’associazione di lavoratori, una famiglia, o addirittura una allegra banda di ladri e prostitute.
Pochissimo interessato alle dottrine e alle teorie della politica, Steinbeck era un populista che si trovava a proprio agio soprattutto tra la gente comune. In seguito al grande successo, negli anni Trenta, di libri come Pian della Tortilla, Uomini e topi e soprattutto Furore, è stato spesso impropriamente iscritto e celebrato (e talora bollato) come autore appartenente al filone della letteratura proletaria. Ma l’umana simpatia che Steinbeck mostra in tutta la sua opera per gli umili e i diseredati ha carattere umanitario, e se da una parte è il risultato della educazione luterana inculcatagli dalla madre, dall’altra è soprattutto suffragata dalla lettura di autori come Emerson e Thoreau, discepoli indiretti di Marco Aurelio e Baruch Spinoza, e paladini – insieme a Whitman – di una idea del mondo e della natura secondo la quale ogni punto della creazione è degno di sacrale rispetto perché è il centro di una realtà che ha come circonferenza l’infinito.