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Alla (ri)scoperta della poesia cilena. Gabriela Mistral e Nicanor Parra nella collana “CapoVersi”

Alla (ri)scoperta della poesia cilena. Gabriela Mistral e Nicanor Parra nella collana “CapoVersi”

Abbiamo chiesto a Matteo Lefèvre, curatore delle antologie L'ultimo spenge la luce di Nicanor Parra e Sillabe di fuoco di Gabriela Mistral, di raccontarci la poesia cilena in occasione delle nuove uscite per la nostra collana CapoVersi. Lasciamo a lui la parola.


Il Cile, terra di poeti

Il Cile è una terra di poeti. È uno slogan, un luogo comune, quasi un mantra: però è davvero così, e non è casuale che il primo Nobel latinoamericano per la letteratura, nel 1945, sia andato proprio a un’autrice cilena: Gabriela Mistral. Considerate l'importanza delle implicazioni politiche che un tale riconoscimento dato a una donna comporta, tanto più in un universo continentale dominato dal patriarcato, anzi, da un vero e proprio maschilismo esteso dalla sfera domestica a quella pubblica.

Successivamente, anche il Nobel del 1971 a Pablo Neruda, il quale in breve avrebbe soppiantato la fama di Gabriela a livello internazionale, conferma come il Cile abbia sempre fatto della poesia la propria bandiera. Per fare un rapido confronto con la narrativa, solamente autori popolari come Isabel Allende, Antonio Skármeta e Roberto Bolaño – ma siamo già a ridosso e a cavallo degli anni duemila – sono riusciti a rubare un po’ di spazio alla lirica, e ciò per evidenti ragioni legate al mercato: negli ultimi cinquant’anni è stato quasi sempre il romanzo ad attirare maggiormente le case editrici di mezzo mondo, dagli anni del boom fino a oggi.

Tuttavia, nel caso cileno più che in altre terre, la poesia ha saputo resistere proprio grazie a nomi come Mistral e Neruda, con Huidobro più sullo sfondo, a cui si possono aggiungere anche autori meno fortunati ma ugualmente significativi, come Enrique Lihn, Gonzalo Rojas, Raúl Zurita, Óscar Hahn e soprattutto Nicanor Parra, esuberante poeta ultracentenario, fautore della cosiddetta antipoesia e di una reazione vibrante proprio nei confronti della lirica solenne e ispirata della Mistral e dei suoi epigoni immediati, da Neruda in giù.

Di Parra, così come della Mistral, peraltro, chi scrive ha recentemente curato un’operazione di recupero grazie all’intraprendenza della collana bompianiana “CapoVersi”: del primo, nel settembre del 2019 è stata pubblicata la corposa antologia L’ultimo spegne la luce; della seconda, è in uscita in questi giorni un’altra ampia silloge, intitolata significativamente Sillabe di fuoco. E in effetti la scrittura di questi due autori può arrivare a “infuocare” il lettore: da un lato, nel caso di Parra, per l’originalità e l’irriverenza – sono parole di Harold Bloom – di forme e contenuti; nel caso di Gabriela, per le sue confessioni più intime, per le battaglie sociali e per il fervore di miti e culti amerindi.

Nicaor Parra e l'antipoesia

Nicanor Parra, nato nel 1914 e morto appena due anni e mezzo fa, nel gennaio del 2018, nei suoi centoquattro anni di vita e nei suoi ottant’anni di scrittura ha saputo condurre agli estremi le possibilità della creatività in versi, inaugurando, come detto, il genere “antipoetico” e riuscendo a forzare dall’interno il sistema delle lettere sudamericane grazie a un’ostinata azione corrosiva. Ha così nutrito una musa prosaica in grado di ispirare temi e linguaggi in precedenza proscritti dal suo universo.

Tuttavia, proprio a partire da tematiche ordinarie e antiliriche, dall’ostentata materialità di motivi e protagonisti è sorto un nuovo corso per la poesia ispanoamericana, una direttrice fresca e inconclusa che dall’estremità del Cono Sur ha raggiunto tutta l’America latina.

L’antipoesia reagisce e si contrappone alla poesia tradizionalmente intesa; è un’erosione profonda, consapevole e disincantata che frantuma l’integrità del soggetto lirico e tutte le sue certezze, che devasta i territori della retorica e dello stile.

A poco a poco, in questa maniera, Parra ha saputo crearsi una riconoscibilità e una reputazione che dal secolo scorso a oggi non lo ha mai abbandonato: la sua fama, anzi, è andata crescendo nel corso dei decenni grazie alle scommesse vinte di volta in volta dal suo genio spericolato, da una penna mordace che ha saputo aggredire con gustosa sfrontatezza e ironia le convinzioni – letterarie, sociali, religiose – dell’umanità del suo tempo; e ciò inizialmente in rapporto alla propria terra di origine per poi debordare verso il resto del continente e anche oltre, dagli USA alla vecchia Europa.

L’importanza tributata a Parra nel panorama americano (e non solo) non ha però trovato il medesimo riscontro nell’universo italiano. Per decenni, di fatto, nel nostro paese il protagonista della lirica di quelle latitudini è stato quasi esclusivamente Neruda, il quale ha sempre spopolato sia in veste di scrittore politico sia come cantore dell’esperienza amorosa. Nonostante i riconoscimenti autorevoli, per esempio, la stessa Mistral in Italia ha sempre goduto di un’attenzione mediatica ed editoriale inferiore rispetto al suo smaliziato allievo, il quale grazie alla sua capacità autopromozionale e anche agli interessi del mondo comunista è stato sempre messo al centro della scena.

La diffusione della poesia cilena in Italia

Al cospetto di un tale monumento, anche Parra da noi è rimasto una presenza oscura, a cui né una prima traduzione delle Antipoesie già nel 1974, nella “bianca” di Einaudi, né, in tempi più recenti, un’antologia di nicchia (Le montagne russe: poesie scelte, Medusa, 2008) hanno contribuito a restituire la giusta luce. Diverse, al di là dell’accecante stella nerudiana, sono le ragioni di questo silenzio, di questa ricezione mancata, come io stesso ho cercato di spiegare nell’introduzione alla recente antologia del 2019.

Tra le varie cause, basti qui evocare, da un lato, la progressiva disaffezione del pubblico italiano verso la poesia, italiana e straniera, che ha portato a una scomparsa graduale, ma inesorabile, di questo genere dai cataloghi editoriali; dall’altro, la diminuzione dell’interesse dei nostri lettori verso la realtà iberoamericana in generale, circostanza che si deve ascrivere anche a ragioni politiche, con lo sgretolamento dei blocchi ideologici del Novecento e la riconversione dei regimi militari nelle fragili esperienze democratiche – se così si possono definire... – degli ultimissimi decenni.

Detto questo – è giusto segnalarlo – un mercato italiano per le letterature del Sudamerica continua a esistere, come conferma la nascita di diversi editori di settore nei decenni ultimi, da La Nuova Frontiera a Gran vía e a SUR, solo per citare i più noti; tuttavia, il già ricordato primato della narrativa sugli altri generi ha fatto sì che i poeti d’oggi (e di ieri) scomparissero di fatto dai radar degli agenti letterari e, conseguentemente, dagli investimenti editoriali più consistenti.

È quasi un miracolo, dunque, che tra queste difficoltà strutturali alcuni poeti contemporanei cileni – da Raúl Zurita a Óscar Hahn, da Antonio Arévalo ad Andrés Morales, da Santiago Elordi a Germán Carrasco, dal Colectivo Casagrande alla generazione più giovane – siano stati pubblicati in Italia negli anni a noi più vicini, ma la loro diffusione resta molto limitata, come testimonia la sorte toccata anche a Parra. Da qui, insisto, l’importanza di un’antologia come L’ultimo spegne la luce, che ne ha rilanciato e storicizzato la figura (e la poesia) in una collana importante e visibile.  

Gabriela Mistral, "un'extraterrestre"

Un destino simile, come accennavo, è toccato anche a Gabriela Mistral, la cui fama planetaria storicamente raggiunse l’apice soprattutto tra gli anni quaranta e cinquanta del Novecento e che comunque continua a rappresentare una auctoritas, un punto di riferimento quasi obbligato per le successive generazioni di autori (e autrici) dell’America latina.

Nonostante ciò, molti scrittori di quelle terre hanno ben presto preso le distanze dai modi e dai motivi cari alla poetessa di Vicuña per percorrere nuove strade; per i poeti ultimi, poi, ça va sans dire, la Mistral rappresenta senza dubbio un classico, e come tale va letto e rispettato, ma anche superato in nome di una modernità fatta di urgenze comunicative nuove, di forme e contenuti inediti.

Una medesima parabola ha coinvolto Gabriela anche in rapporto all’Italia, paese in cui ebbe modo di risiedere in diversi momenti della vita per via dei suoi incarichi diplomatici. Grazie al Nobel del ’45 e al suo antifascismo dichiarato, fin dall’immediato dopoguerra la sua statura morale è stata molto apprezzata e la sua opera tradotta in più occasioni in seno alla nostra editoria.

Oltre a diverse riviste accademiche e militanti, vanno menzionate nell’ordine una breve selezione di prose e poesie promossa dal nostro Ministero degli Esteri e curata da Raniero Nicolai (Piccola antologia di Gabriela Mistral, 1946); una ridotta ma emblematica antologia pubblicata a un anno dalla morte (Poemi delle madri, 1958), che metteva in luce l’impegno emancipazionista dell’autrice al lato delle donne; e soprattutto la corposa antologia curata da Piero Raimondi per la collana UTET dedicata ai premi Nobel (Gabriela Mistral, 1968, con varie ristampe).

Successivamente, la poesia mistraliana nel nostro paese è precipitata in un oblio pluridecennale interrotto solamente negli ultimi tempi dalle due edizioni di un’antologia edita da Marcos y Marcos (Canto che amavi, 2010 e 2018), nonché dal volume annunciato in precedenza (Sillabe di fuoco, 2020) e curato dal sottoscritto proprio per i “CapoVersi” Bompiani.

Tra silenzi e recuperi meno estemporanei o isolati, pertanto, la Mistral sembra stare tornando con forza nel canone novecentesco della poesia di lingua spagnola, della sua agitata storia politica e sociale, e ciò sia grazie alla potenza dei suoi versi sia per il peso della sua personalità, per quanto ha rappresentato a livello politico per le genti d’America.

Lo testimoniano alcune iniziative relativamente recenti: per rimanere all’Italia, per esempio, è giusto menzionare la mostra Figlia di un nuovo popolo, tenutasi in varie città del nostro paese nel 2015 in occasione dei settant’anni dal Nobel, ma soprattutto la lettura-spettacolo Omaggio a Gabriela Mistral, evento inaugurale del XXVI Salone del Libro di Torino nel 2013, quando il Cile è stato l’ospite d’onore della prestigiosa fiera.

Sicuramente, al di là queste e altre iniziative Gabriela rappresenta dunque un monumento culturale prima che letterario, il simbolo di una lunga, incompiuta liberazione di nazioni e individui, donne e bambini, l’osservatrice attenta di un secolo i cui conflitti si trascinano ancora oggi sullo scacchiere geopolitico del continente: la sua poesia è basata sulle ragioni dell’umanità più che su quelle dell’ideologia, porta con sé le cicatrici di uno sfruttamento e di una marginalità atavica che ha investito i popoli americani dalla Conquista in avanti, ma con la consapevolezza di una grande tradizione, di un’energia che nasce dal territorio e dalla storia stessa.

Il tutto, senza dimenticare la sua storia pubblica e privata, la sua biografia più interna, che emerge in alcuni dei suoi testi migliori. Lo si nota, per chiudere con i suoi stessi versi, nel caso della lirica Agua, nella quale, un po’ come nei Fiumi di Ungaretti, attraverso l’elemento liquido Gabriela Mistral ricostruisce il proprio itinerario esistenziale, un itinerario che spazia dall’America all’Europa, con l’Italia – non a caso – in primissimo piano.

Ci sono terre che ricordo

come ricordo la mia infanzia.

Sono terre di mare o fiume,

di acque, pianure e pascoli.

Paese mio lì sul Rodano,

devoto al fiume e alle cicale;

Antilla a palme verdi-nere

che in mezzo al mare sta e mi chiama;

rocca ligure di Portofino:

mare italiano, mare italiano!