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— Parola all'editore

La poesia del mese. Marzo 2020

La poesia del mese. Marzo 2020

Cos’è la poesia che non salva
i popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,
una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
questo, e solo questo, è la salvezza.

Czesław Miłosz, Prefazione, 1945

Siamo arrivati a fine marzo e vi proponiamo il secondo articolo della nuova rubrica che propone ogni mese una poesia e un poeta da scoprire. Approfittando della nascita della nostra nuova collana CapoVersi abbiamo pensato di attingere agli autori che vi andiamo pubblicando per dare ai nostri lettori un assaggio della loro opera in traduzione (ma nei volumi trovate sempre anche il testo originale a fronte).

Oggi vi diamo un assaggio di John Ashbery, il maggior poeta del postmodernismo americano, nonché il primo autore americano a vedere da vivo la propria opera raccolta e pubblicata dalla Library of America e riconosciuto maestro della generazione che ha esordito intorno agli anni settanta. Nel 1975, proprio con Autoritratto entro uno specchio convesso, che proponiamo nella traduzione di Damiano Abeni e con uno scritto di Harold Bloom, vinse i tre più prestigiosi premi poetici degli Stati Uniti – il Pultizer, il National Book Award e il National Book Critics Award – con un canzoniere complesso ed entusiasmante, evocativo, spesso onirico, ricco di riferimenti enciclopedici e continue reinvenzioni.

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Un uomo di parole di John Ashbery (1927-2017)

Il suo caso suscita interesse
ma scarsa simpatia; è più piccolo
di quanto non sembrasse a prima vista. Che contributo
dà la prima ortica se ciò che cresce
diventa uno sketch? Tre lati conchiusi,
il quarto aperto all’erosione delle intemperie,
uscite ed entrate, gesti intesi in modo teatrale
a interrompere ripetutamente come malerbe piegate su se stesse
mentre il giardino si satura di neve?
Ah, ma si sarebbe trattato di un altro, ben altro
spettacolo, non del sapore metallico
che ho in bocca mentre distolgo lo sguardo, densità nera come polvere infume
negli angoli in cui continua lo scrivere d’erba,
Rosarossa in luoghi inusitati come la pressione
di dita su un libro chiuso di scatto all’improvviso.

Quelle intricate versioni del vero vengono
sbrogliate, i ringhiosi grovigli estirpati
e sparpagliati. Dietro la maschera
permane una comprensione continentale
del bello, che s’appalesa di rado e quando lo fa già
muore sulle ali del vento che l’ha portato sulla soglia
della parola. Racconto consunto dal raccontare.
Tutti i diari s’assomigliano, limpidi e gelidi, con
la prospettiva di un gelo interminabile. Vengono collocati
in orizzontale, paralleli alla terra,
come i morti che non ci intralciano. Giusto il tempo di rileggere
e il passato ti scivola tra le dita, augurandosi che tu sia con lui.

1975

John Ashbery