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La poesia del mese. Aprile 2020

La poesia del mese. Aprile 2020

Cos’è la poesia che non salva
i popoli né le persone?
Una complicità di menzogne ufficiali,
una cantilena di ubriachi, a cui fra un attimo verrà tagliata la gola,
una lettura per signorinette.

Che volevo una buona poesia, senza esserne capace,
che ho capito, tardi, il suo fine salvifico,
questo, e solo questo, è la salvezza.

Czesław Miłosz, Prefazione, 1945

Siamo arrivati alla fine di questo strano aprile e vi proponiamo il terzo articolo della nuova rubrica che propone ogni mese una poesia e un poeta da scoprire. Approfittando della nascita della nostra nuova collana CapoVersi abbiamo pensato di attingere agli autori che vi andiamo pubblicando per dare ai nostri lettori un assaggio della loro opera in traduzione (ma nei volumi trovate sempre anche il testo originale a fronte).

Oggi abbiamo scelto Vladislav Chodasevič. Nato a Mosca nel 1886, subì inizialmente l'influsso del Simbolismo ma professò sempre un profondo culto per i classici ottocenteschi. Protagonista della grande stagione della letteratura russa di inizio Novecento, il cosiddetto "Secolo d'argento", era il più giovane tra coloro che esordirono all'inizio del ventesimo secolo e conobbe fulgore e declino: per età appartenenva alla generazione che non ebbe il tempo di esprimersi appieno prima del 1917 e che, ammutolita dall'Ottobre e dall'emigrazione, non poté più farsi ascoltare. Considerato da Nabokov uno dei maggiori lirici russi del secolo scorso, è stato poi riscoperto dai giovani poeti degli anni settanta e definitivamente riablitato solo con la perestrojka. 

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“Non mia madre mi allattò...” di Vladislav Chodasevič (1886-1939)

Non mia madre mi allattò ma Eléna
Kùzina contadina di Tula. Lei
sulla stufa asciugava le fasce, col segno
di croce fugava a notte i brutti sogni.

Non sapeva fiabe né canzoni, ma
sempre aveva per me nel baule segreto,
foderato di bianca latta, un panforte
speziato o un cavalluccio di menta.

Non mi ha insegnato a dire preghiere,
pure senza riserve tutto mi ha donato:
il suo amaro sentimento materno
e ancora quanto più le era caro.

Solo quando caddi dalla finestra,
per fortuna illeso (come ricordo il giorno!),
alla chiesa di Iversk accese a pochi spicci
un cero per il miracolo insperato.

Ecco, Russia, “risonante impero”,
con le labbra mordendole i capezzoli,
ho succhiato il tormentoso diritto
di poteri amare e maledire.

Nell'onesta impresa, felice dei sacri suoni
di cui sono a ogni istante servo fedele,
mio maestro è il tuo genio taumaturgo,
nell'arena mi sfida la tua magica lingua.

E dinnanzi ai tuoi fiacchi eredi
posso a volte ancora inorgoglire
per la lingua avuta in retaggio,
che ho imparato gelosamente ad amare...

Fuggono gli anni. Al futuro non guardo,
nell'anima il passato è ormai cenere,
pure in segreto ancora vive il conforto
che anche a me sia riservato un asilo:

là dove, col cuore divorato dai vermi
che per me serba un incorrotto amore,
giace, accanto agli ospiti dello zar a Chodynka,
Eléna Kùzina, la mia nutrice.

15 febbraio 1917, 2 marzo 1922

Vladislav Felicianovič Chodasevič