Nelle mie vene racconta dell’essere figlio e dell’essere padre, del sangue che si dona e di quello che si riceve. Racconta della Sardegna d’inverno, dei paesi contadini e della sua più grande città di mare, del bisogno di scappare e della poesia dell’arrangiarsi, di giovani vite al confine tra il crimine e la noia, di romanzi mai scritti, della televisione italiana, di bambine da crescere, donne da amare, di caffè-libreria, stazioni e aeroporti. Flavio Soriga scrive un racconto che è un sorprendente noir isolano, un reportage coraggioso sulla Sardegna più lontana dall’immaginario comune e un sorridente bilancio sul ruolo degli intellettuali nel nostro mondo distratto. E lo comincia così.
Tutto ciò che leggerete è inventato, non è mai successo, scrive l’autore a inizio romanzo sperando che gli si presti fede, poiché gli seccherebbe incontrare un giorno una sua lontana cugina e che quella gli dicesse: Maledetto tu sia, maledetto, perché hai raccontato la mia storia fugace con quello straniero, che era bene restasse segreta? Sarebbe doloroso che a sua madre al mercato qualcuno dicesse: Ecco, tuo figlio ha messo sulla carta il racconto di quella brutta vicenda che io stessa avevo scordato, ora tutti la conoscono, finora potevo sperare nell’oblio ma a causa di questo romanzo l’avrò in testa per sempre, vergogna a lui!
Lo scrittore vorrebbe che gli si credesse: ha inventato, è tutto falso, non si confonda la vita vissuta con queste pagine di fantasia. Eppure lo scrittore, dopo tanto penare in solitudine per inventarle, vorrebbe anche che fossero credute tutte vere, quelle storie. Non è possibile che non sia andata esattamente così, sogna l’autore che i suoi lettori pensino. Così gli dirà, a inizio intervista, la conduttrice del programma radiofonico sui libri, così dirà ammirata agli ascoltatori: Che potenza, queste storie, sono vere, sembrano vere, come possono non esserlo?
E d’altronde si usa dire che al lettore si richiede questo, esattamente: la sospensione d’incredulità, siediti e leggi, senza più domandarti se è verosimile. No non può essere, così non vanno le cose, figurati! Smetta il lettore di interrogarsi, legga la storia come fosse un diario, una cronaca in diretta, come la stesse vivendo egli stesso, sebbene in realtà non l’abbia vissuta nessuno.
E allora lo scrittore andrà in parata ai festival ben soddisfatto di avere ingannato tanta gente, cioè di avere compiuto il suo mestiere, che così poco sembra un mestiere e forse non deve mai diventarlo. E d’altronde può essere necessario ingannare, come ben sanno le spie e i governanti e i bari, come sanno anche i medici quando devono comunicare una condanna senza appello, Sarà bene tacere che il tumore non darà scampo? Richiede tempo, l’inganno, abilità, dedizione, mestiere appunto, e almeno per la fatica spesa deve sperare l’autore di venire assolto dalle sue colpe (mentre minore benevolenza si concede di solito alle spie e ai bari, che peraltro sono tenute a non denunciare mai la propria vocazione, nemmeno sotto tortura, in senso proprio).
E dunque: tutto ciò che ho scritto in queste pagine è inventato, e soprattutto lo sono il mio paese e i suoi abitanti, poiché non li conosco abbastanza da poter dire come essi sono davvero, ho dovuto inventare tutto, tranne forse la conformazione delle due o tre strade in cui sono cresciuto, e che sono l’unico luogo al mondo in cui mi senta completamente a casa. Per il resto è tutta invenzione, anche se non posso escludere che siano avvenute in passato storie simili a questa, o anche quasi identiche, chi lo sa? e anzi mi sento di non escluderlo, e forse, addirittura, sì, potrei dire di esserne convinto.