Oggi sappiamo che se anche azzerassimo tutte le emissioni di anidride carbonica nel giro di 24 ore, quella che abbiamo pompato nell’atmosfera negli ultimi due secoli continuerebbe a riscaldare il pianeta per decenni. Il nostro mondo dunque è destinato a cambiare, anzi, è gia cambiato, semplicemente ancora non riusciamo a vedere quanto. Le immagini mentali che da sempre utilizziamo per interpretarlo, le nostre “cartoline”, ci nascondono un pianeta in agonia, e noi continuiamo ad attingerne senza troppe ansie, come faremmo con un albero malato che ancora regge sui rami frutti sani.
L’altro mondo: la vita in un pianeta che cambia, di recente pubblicato nel nostro catalogo, è un viaggio attorno al mondo alla ricerca dei posti in cui la crisi climatica è già visibile, e al contempo un’indagine sui limiti cognitivi e culturali che ci impediscono di accorgerci di come il nostro mondo sia già cambiato. Con l’aiuto dell’autore, Fabio Deotto, andiamo a vedere che aspetto ha questo “altro mondo” e perché non riusciamo a vederlo a occhio nudo.
Le Maldive sono considerate un paradiso in terra, forse la località da cartolina per eccellenza, ma a causa della loro altitudine ridotta (in media 1,2 metri sopra il livello del mare), rischiano di essere cancellate dalle cartine di qui alla fine del secolo. Già oggi però le Maldive non sono più quelle di dieci anni fa. L’aumento del livello degli oceani, l’intensificarsi delle mareggiate e delle tormente, l’intervento dell’uomo sulle barriere costiere naturali e l’edificazione costiera hanno ridotto le spiagge di decine di metri, al punto che alcune isole sono contornate solo da uno striminzito anello di sabbia e non è raro vedere palme inclinarsi e crollare. Non è solo un problema che riguarda le Maldive, l’erosione costiera è un fenomeno che interessa diversi luoghi nel mondo, e si calcola che di qui alla fine del secolo metà delle spiagge del mondo potrebbe sparire.
Il cacao non è una pianta facile da coltivare, ha bisogno di condizioni particolari, tra cui un suolo ricco di azoto, un’elevata umidità, piogge abbondanti e un terreno al riparo dal vento. Per questo oggi tutte le piantagioni di cacao si trovano in una fascia tropicale compresa tra i 10 gradi a nord e i 10 a sud dell’equatore, in paesi che stanno registrando cambiamenti significativi a livello climatico. Con l’aumento delle temperature globali e piogge sempre meno prevedibili, il cacao, così come la birra, il caffè e molti altri prodotti che oggi troviamo in abbondanza sugli scaffali del supermercato, rischiano di diventare beni di lusso. In Italia, un prodotto a rischio è il vino: negli ultimi anni i viticoltori sono stati costretti ad anticipare la vendemmia, perché le uve maturano prima del previsto, di conseguenza presentano un più alto livello di alcol e zuccheri, e una minore acidità. Intanto, negli ultimi trent’anni si è cominciato a produrre vino in zone un tempo impensabili, come il Belgio, la Danimarca, alcune parti della Scandinavia, il Sud dell’Inghilterra; parallelamente sta accadendo qualcosa di simile nell’emisfero australe, in Cile e in Patagonia. Non passerà troppo tempo prima che lo spumante inglese arrivi a far concorrenza alla produzione sempre più complessa e faticosa della Franciacorta.
Se ci pensiamo le città hanno molte cose in comune con le forme di vita: entrambe assimilano energia e nutrienti e producono rifiuti; entrambe si appoggiano a un sistema circolatorio per trasferire energia, materiali, prodotti e unità costitutive; entrambe sono divise in vari distretti che assolvono a specifiche funzioni; e in entrambi i casi il malfunzionamento di una componente tende a ripercuotersi sull’intero sistema. Oggi, con l’aumento delle temperature globali e un’urbanizzazione galoppante, questi organismi funzionano sempre peggio: le metropoli più calde si devono organizzare per far fronte alle frequenti ondate di calore, iniziative che si riducono di solito allo sfruttamento di spazi pubblici come biblioteche, supermercati, stazioni di polizia, ma anche spiagge e piscine, per fornire riparo e refrigerio alla popolazione più a rischio. Si tratta però di misure tampone, che potranno funzionare solo sul breve termine. Per adattarsi a un mondo più caldo occorre ripensare integralmente lo spazio urbano, e alcuni lo stanno facendo: c’è chi sta ripensando il tessuto urbano in modo da ottimizzare la ventilazione naturale, chi vuole trasformare le città in enormi spugne capaci di trattenere ogni goccia d’acqua e chi punta a liberarle dalla tirannia delle automobili.
Non siamo abituati a mettere in relazione le migrazioni alla crisi climatica, ma i dati parlano chiaro: su 33,4 milioni di persone costrette a lasciare i propri territori nel 2019, solo 8,5 milioni si trovavano a scappare da conflitti. I quasi 30 milioni restanti erano imputabili a disastri naturali (in particolare uragani e inondazioni), e provenivano soprattutto da India, Filippine, Bangladesh e Cina. Il riscaldamento globale non è tanto un generatore di nuove problematiche, quanto un moltiplicatore di rischi già esistenti. Sempre più persone sono costrette a lasciare il posto in cui sono nate perché non è più in grado di fornire riparo e sostentamento, e tra le cause scatenanti la componente climatica è ormai preponderante. Si calcola che di qui al 2050 il numero di migranti climatici crescerà di almeno 250 milioni di persone, quasi dieci volte il numero attuale.
A ogni anno che passa le strade di Miami Beach sono sempre meno al riparo dalle acque, non importa che dal 2013 siano state sollevate di un metro, non appena la marea si alza, alcune zone della città rimangono allagate. Nel frattempo, a poca distanza dalla costa, alcuni dei quartieri storicamente più poveri di Miami sono diventati d’un tratto appetibili per gli speculatori. Posti come Liberty City e Overtown, sorti in corrispondenza della ferrovia che a fine ‘800 raggiunse il sud della Florida, ora si ritrovano in posizione più elevata del resto della città. Così, da qualche anno, gli speculatori si stanno gettando su questi quartieri come avvoltoi. Risultato: gli affitti salgono, intere famiglie finiscono per strada e molte persone sono costrette a migrare in luoghi più esposti alla crisi climatica.
Siamo i discendenti di chi ha saputo scappare davanti alle insidie, di chi riusciva a mettersi all’erta quando si avvicinava un pericolo. Non stupisce dunque che molti di noi siano costantemente in preda ad ansie e paure a volte inconsistenti. Eppure noi, così bravi a provare paura, non riusciamo a preoccuparci seriamente per la crisi climatica. Questo accade perché nei nostri crani scatta un campanello d’allarme solo quando la minaccia che ci troviamo ad affrontare risponde a determinati parametri: e cioè quando è personale, il che significa che oltre a interessarci direttamente, può essere ricondotta all’intenzione o all’iniziativa di una persona o un ente specifico; improvvisa, ossia presuppone un cambiamento repentino oltre che facilmente inquadrabile; immorale, e dunque può essere intesa come qualcosa di empio, indecente o disgustoso; e attuale, ovvero interessa il presente, o al limite l’immediato futuro. Se davvero il nostro cervello viene messo in allarme da questi quattro tasti, il cambiamento climatico non ne tocca praticamente nessuno. Parliamo di una minaccia troppo distribuita nello spazio e nel tempo per essere inquadrabile in un solo sguardo. Possiamo crederci, ma non possiamo vederla nella sua complessità.
In psicologia si definisce “illusione di controllo” la tendenza delle persone a sovrastimare la loro effettiva capacita di controllare gli eventi che le coinvolgono. Il concetto fu proposto negli anni settanta dalla psicologa americana Ellen Langer, che per dimostrarne la validità condusse diversi esperimenti. In uno di questi veniva chiesto ad alcuni soggetti di lanciare dei dadi con l’obiettivo di produrre un numero specifico: Langer osservò che quando ai soggetti era richiesto di ottenere un numero elevato questi lanciavano i dadi con più forza. Ecco, come ci illudiamo di poter controllare un lancio di dadi, così ci illudiamo di avere il controllo sull’ambiente naturale che ci circonda. Un esempio lampante è quello di New Orleans. Venne fondata in riva al Mississippi perché era una posizione strategica, ma per assicurarsi che potesse crescere e prosperare era necessario tenere sotto controllo un fiume così inquieto. Negli anni si sono costruiti argini sempre più alti, che hanno intrappolato il fiume ma anche impedito al sedimento di nutrire i terreni circostanti. Oggi New Orleans sprofonda quattro metri sotto il livello del fiume, ed è incredibilmente vulnerabile alle catastrofi climatiche (come Katrina ha ampiamente dimostrato).
Oltre ad avere paura delle cose sbagliate e ad illuderci di poter controllare l’incontrollabile, siamo tendenzialmente portati a credere che un evento negativo abbia maggiori probabilità di colpire altri piuttosto che noi (il cosiddetto bias di ottimismo). A questo si unisce un’altra distorsione cognitiva, che in psicologia sociale viene chiamata “effetto spettatore”, ed è la nostra tendenza a non intervenire in una situazione di pericolo se attorno a noi ci sono altre persone. Anche questo è frutto della nostra evoluzione: i nostri antenati vivevano in un mondo pieno di potenziali pericoli, e per evitare di essere costantemente schiacciati dalla paura dovevano riuscire a mantenere il sangue freddo, così da agire solo se la situazione lo richiedeva. Per fare questa valutazione, osservavano come si comportavano le persone attorno a loro. Oggi, queste distorsioni contribuiscono a mantenerci immobili di fronte alla crisi climatica. La nostra casa “sta andando a fuoco”, ma siccome siamo circondati da persone che non agiscono, e siccome non pensiamo di rimetterci in prima persona, continuiamo a vivere come sempre.
La storia è piena di casi in cui le persone si sono mostrate riluttanti a reagire a una catastrofe: vale per quelli che nel 79 a.C. si attardarono a lasciare Pompei nonostante il Vesuvio avesse già cominciato a eruttare, vale per chi si rifiutò di assecondare gli ordini di evacuazione a Fukushima e vale per le decine di persone che rimasero in un limbo di indecisione anche dopo che gli aerei si erano scontrati contro le Torri Gemelle. In buona parte quelle persone assecondavano una tendenza tutta umana: di fronte a un evento a cui non sappiamo come reagire, nel dubbio restiamo dove siamo, e rimandiamo un’eventuale reazione. Si parla di bias di normalità per illustrare la tendenza di molte persone a sottostimare le conseguenze di un evento catastrofico, o comunque straordinario. Questo non avviene perché non siamo coscienti del pericolo, quanto perché siamo abituati a credere che la situazione in cui ci troviamo non possa cambiare in modo radicale. Questa medaglia ha un rovescio altrettanto sconfortante: siccome non riusciamo a immaginare che il mondo cambi in maniera radicale, fatichiamo a immaginare anche un nuovo modo di abitarlo.
Gran parte delle cose che impariamo, le impariamo attraverso delle storie. È per via delle storie che ci hanno raccontato che pensiamo che una principessa debba essere salvata, che i pipistrelli si nutrano di sangue o che sia possibile tracciare una separazione tra bene e male (tutte cose non necessariamente vere). Trascorriamo la prima parte della nostra vita immersi nelle storie, e poi, arrivati all’adolescenza, cominciamo a costruircene una personale, a vedere la nostra presenza nel mondo in termini narrativi, come protagonisti di un percorso di cui conosciamo l’inizio e che sappiamo avrà una fine. Cosi, una volta entrati nell’età adulta le storie ormai sono diventate il nostro linguaggio: usiamo strumenti narrativi per raccontare cosa ci sia successo durante la giornata, le ritroviamo nei gossip, nello sport, nella religione, quando una relazione diventa importante la chiamiamo “storia”, il nostro tempo libero da svegli lo dedichiamo in gran parte a cercarne di nuove e quando dormiamo il nostro cervello ce ne propina in forma di sogno. Insomma, siamo letteralmente dipendenti dalle storie. Tanto che prestiamo più attenzione ad esse che alle nude informazioni. E abbiamo la tendenza a preferire le storie semplici a quelle complesse. È per questo che gli stereotipi attecchiscono e tendiamo a usare generalizzazioni per mettere ordine nel mondo. La crisi climatica non è una storia semplice, non può essere inquadrata con un solo sguardo né essere restituita da una sola storia. Per questo abbiamo bisogno di più sguardi, di più storie, e di metterci nell’ordine di idee che ci sarà sempre un lato della realtà che non riusciremo a vedere.