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Questa non è propaganda. Lo stato di salute dell'informazione

Questa non è propaganda. Lo stato di salute dell'informazione

Negli ultimi anni si è parlato spesso di “fake news”, come di un fatto nuovo (tanto è vero che nel dibattito italiano, per una tendenza all’anglicismo ormai generalizzata, in pochi hanno sentito l’esigenza di tradurre queste due parole), ma che nuovo non è. Le notizie false sono sempre esistite. E non occorre scomodare la dezinformacija, inventata già agli albori dell’impero sovietico, per sapere che accanto alla censura vera e propria e alla diffusione di notizie completamente false – propaganda pura, potremmo dire – esiste tutto uno spettro di possibilità intermedie di alterazione (o non alterazione) della realtà comunque utile alla manipolazione dell’opinione pubblica. Le notizie sono false, ma è attendibile la fonte che le propaga. Oppure, le notizie sono vere ma è falso il contesto in cui sono inserite. Peter Pomerantsev conosce bene le molteplici sfumature di questa gamma di grigi aletici, come figlio di un giornalista e scrittore perseguitato dal KGB, tra le altre cose, per la sua ammirazione per William Faulkner, e a sua volta giornalista e studioso di guerra dell’informazione nella comunicazione politica. Nel volume Questa non è propaganda, ha raccolto una serie di saggi e interviste che hanno lo scopo di verificare lo stato di salute del valore di verità dell’informazione globale. E la diagnosi non è rassicurante.

Dalle Filippine di Rodrigo Duterte alla Russia di Vladimir Putin, dai territori dilaniati dalla guerra come la Siria e il Donbass ai regimi democratici ma con tendenze autoritarie come il Messico o il Brasile sono numerosi i paesi o i territori dove la guerra dell’informazione è stata ed è combattuta intensamente ma mai in modo altrettanto sottile e velenoso come nei paesi democratici, in cui proprio le più solide istituzioni deputate alla tutela della libertà di espressione sono diventate il facile bersaglio e l’involontario veicolo di una propaganda di nuova generazione: quella dei bot, delle fabbriche dei troll e della manipolazione politica che si insinua nei social media.

Se un tempo infatti ci si preoccupava – come facevano per esempio Orwell in 1984 o Bradbury in Fahrenheit 451 – che una fazione si impossessasse del potere e imponesse il proprio punto di vista a tutti gli altri esercitando la più repressiva delle censure in abbinamento al più soffocante dei controlli sociali, ci si preoccupava cioè di una manipolazione dall’alto e da parte di una voce unica, oggi in realtà, avverte Pomerantsev, la situazione è cambiata al punto che si è praticamente ribaltata. Grazie alla rete e ai social media è possibile orientare la pubblica opinione in maniera tanto subdola quanto efficace senza dover attaccare frontalmente i baluardi della libertà di espressione ma anzi sfruttando i numerosi canali che sotto la sua tutela d’impronta liberale prosperano: la manipolazione delle coscienze avviene dunque oggi dal basso e per mezzo di una pluralità di voci.

È quella che l’autore definisce “censura tramite rumore”: i social sono inondati da una tale quantità di contenuti fake, para-fake, simil-veri o persino veri ma decontestualizzati che costituiscono una matassa difficile da dipanare, e anche quando ci si riesce si è spesso perso tempo prezioso, in cui l’obiettivo dei propagandisti è stato comunque raggiunto, come per esempio durante una campagna elettorale. Fabbriche di bot e di troll che si inseriscono in gruppi di casalinghe americane discutendo del più e del meno per conquistarne la fiducia e poi orientarne il voto con qualche commento politico lasciato cadere con noncuranza tra una ricetta e un pettegolezzo di quartiere. O che si mascherano da sostenitori del movimento Black Lives Matter e quindi per inserirsi nella comunicazione dei movimenti per i diritti civili con l’intenzione in realtà di usare quel bacino di attenzione per accrescere il favore nei confronti di Trump o danneggiare l’immagine del suo avversario.

Questa non è propaganda prospetta una realtà nuova, molteplice e, purtroppo per noi cittadini occidentali, insolita e dai contorni inquietanti. Il rischio è quello di rimanerne sconvolti, sospettosi di tutto e verso tutti. Ma vorrebbe dire reagire emotivamente, mentre in un mondo come quello contemporaneo “alluvionato da informazioni irrilevanti”, come direbbe Harari, “la lucidità è potere”. E Pomerantsev, con i suoi reportage, fa proprio questo: ci fornisce quella lucidità che è indispensabile per capire cosa si agita sotto le acque apparentemente innocue della comunicazione social, e affrontarlo con consapevolezza.

Peter Pomerantsev