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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Silvia Cosimini

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Silvia Cosimini

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Silvia Cosimini, la principale traduttrice e divulgatrice della letteratura islandese in Italia. Per Bompiani ha firmato la traduzione di Risposta a una lettera di Helga di Bergsveinn Birgisson, al quale abbiamo dedicato anche un altro articolo del nostro Salotto.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

A dire il vero, il momento che ricordo meglio è quello in cui decisi di NON volerlo diventare: al secondo anno di università, durante un seminario di filologia germanica. Era un corso su una saga norrena ed eravamo in quattordici a frequentarlo. Un giorno il professore arrivò con una lista di quattordici argomenti su cui ciascuno avrebbe dovuto lavorare e tutti i miei compagni, entusiasti e convinti, cominciarono a scegliere il loro tema preferito. Io, completamente spaesata, rimasi l’ultima, costretta a prendere l’ultimo argomento rimasto: la traduzione. Non sapevo nemmeno da che parte cominciare, non mi interessava per niente. Qualche anno dopo però, quando vivevo in Islanda, mi accorsi che esisteva una ricca letteratura contemporanea che in Italia era ancora sconosciuta e pensai che forse poteva diventare la mia missione. 

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Il primo libro che ho tradotto da sola è stato Tutto in ordine, di Svava Jakobsdóttir, per Le Lettere. Era una raccolta di racconti che avevo selezionato e proposto. Resta ad oggi uno dei libri che più mi sono rimasti nel cuore.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

L’ultimo di Guðrún Eva Mínervudóttir: la trovo un’autrice intelligente, profonda e di grande eleganza che in Italia meriterebbe più visibilità.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

La sensibilità verso la propria lingua, più che per la lingua di partenza del testo; la frequentazione costante della cultura che si traduce e poi la rete, risorsa ormai diventata fondamentale, anche se talvolta pericolosa. Infine non va dimenticata la comunità dei colleghi traduttori, ai quali ci si può sempre rivolgere per consigli, aiuti, un confronto.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Sì, molto. Il traduttore è prima di tutto un lettore scrupoloso e attento. Sono diventata molto più esigente come lettrice, ho alzato i miei standard e adesso trovare un romanzo che mi entusiasmi è un’impresa. E sono diventata la regina della dietrologia: “cosa avrà voluto dire qui l’autore?” oppure “come sarà questa frase in lingua originale?” Difficile liberarsi da questo vizio.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce?

Bellissimo. La ritengo una delle fortune del tradurre da questa lingua. Gli autori islandesi scrivono per un mercato interno di 360.000 persone e per forza di cose hanno una considerazione altissima di noi traduttori, sanno che è grazie a chi li traduce che riescono ad accedere ad altri paesi. Sono molto riconoscenti verso chi li traghetta in altre lingue e ormai alcuni sono diventati degli amici: passano a trovarmi quando vengono in Italia, ci vediamo spesso quando io sono a Reykjavík. Io del resto li importuno volentieri ogni volta che ho dei dubbi interpretativi sul testo, e loro sono sempre disponibili.

E con gli editori per cui traduce?

Dipende, con alcuni c’è un bel rapporto di collaborazione e di fiducia, anche sulle scelte editoriali; spesso trovo interlocutori attenti e disponibili, sia quando faccio delle proposte o delle schede di lettura, sia quando consegno le bozze e segnalo eventuali criticità. Con altri editori non è sempre altrettanto facile, soprattutto quando manca continuità con i redattori perché la casa editrice si avvale di collaboratori esterni. Non apprezzo affatto che mi si sottopongano le bozze con interventi redazionali arbitrari o per i quali non sono stata consultata – soprattutto nel caso di una lingua poco diffusa e fragile come l’islandese, mi piacerebbe un dialogo maggiore.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Ne ho molti ma il più belli sono legati ai lettori che mi scrivono per dirmi che apprezzano le mie cose. Il lavoro del traduttore non vede grandi riscontri e passa sotto silenzio se è fatto bene, ma quando un recensore apprezza la traduzione e lo scrive – senza banalità, in maniera sincera – è una bella cosa. Lo stesso quando i lettori o i librai mi dicono che il mio lavoro piace.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Non saprei, ho tradotto libri molto belli e libri meno belli, diciamo che sono soddisfatta così: al momento non ho rimpianti. Mi dispiace aver perso Indriðason, quello sì.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Purtroppo no, mi dispiace: la situazione è nettamente migliorata rispetto a qualche anno fa, adesso abbiamo anche un sindacato molto attivo, tante iniziative, i traduttori vengono coinvolti sempre più spesso nelle presentazioni dei libri – ma c’è ancora molta strada da fare. I miei colleghi all’estero vivono situazioni completamente diverse, molto più favorevoli e dignitose. Diciamo che ai riconoscimenti morali, alla visibilità o al nome in copertina, che peraltro è già prassi di alcuni editori, preferirei riconoscimenti economici più solidi, delle royalties, la possibilità di ammalarmi senza patemi.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Leggere tanto, affinare la propria lingua, coltivare l’umiltà, impegnarsi per migliorare. Trovo che la cosa più bella della traduzione sia proprio l’imperfezione e quindi la perfettibilità: c’è spazio per farla sempre meglio. E poi, fondamentale!, sviluppare un senso di comunità, fare rete insieme agli altri traduttori: non fare dumping, non svendersi rovinando il mercato.