Giunti Editore

— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Marco Drago

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Marco Drago

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Marco Drago, autore, traduttore e conduttore radiofonico. Per Bompiani ha tradotto i primi due libri di Alan Parks dedicati alle indagini dell'ispettore McCoy, Gennaio di sangue e Il figlio di febbraio, dei quali sul nostro Salotto ha già raccontato atmosfera e ambientazioni, e Peccati gloriosi di Lisa McInerney.

 

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

A essere precisi io sono anche un traduttore, l’attività di traduttore è felicemente affiancata da quella di autore (romanzi, radiodrammi, canzoni) – quindi non ho davvero mai deciso che sarei diventato un traduttore. Piuttosto è successo che mi si chiedesse di farlo e che io accettassi. Però è vero che ho frequentato il liceo linguistico e ho conseguito la laurea in lingue moderne, quindi sotto sotto forse era destino.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Un libro per ragazzi di cui ho scordato titolo e autrice, ma è successo tanti anni fa.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Il terzo volume della serie di Alan Parks sulla Glasgow del 1973. Ho tradotto i primi due e vorrei proseguire.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

La pazienza e la tenacia se parliamo di doti personali. Il web se parliamo di tecnologia.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Ha influito più come spettatore di film e serie tv. Spesso, quando sono lì che mi rilasso davanti allo schermo con l’audio in inglese e i sottotitoli in italiano mi trovo a ragionare sul rapporto tra quello che sento e quello che leggo e mi distraggo e smetto di seguire la trama e non ci capisco più niente. Come lettore, se mi succede di leggere un libro tradotto ed è un libro magari complesso, con un linguaggio raffinato, mi sciolgo d’ammirazione per colui o colei che ha fatto il lavoro; se leggo un libro in inglese mi viene una specie di inutile ansia perché mi metto lì come un pazzo a pensare come potrebbe essere resa in italiano quella frase o quell’espressione e poi mi dico: “Ma non devi tradurlo, devi solo leggerlo, questo libro,” e allora l’ansia svanisce e mi godo la lettura, passo gioiosamente sopra le parole che non capisco, salto intere parti, insomma leggo e basta.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce?

Sono il loro stalker. Scherzo. A volte nessuno, a volte ci si scambia delle e-mail di chiarimenti e si diventa quasi amici. A volte il libro proprio non mi piace, non mi piace lo stile, e il lavoro diventa più difficile; a volte invece il libro mi piace tantissimo e non vedo l’ora che esca la mia traduzione per farlo leggere al pubblico italiano.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Come traduttore ricordo con piacere le recensioni di Gennaio di sangue di Alan Parks perché citavano sempre anche la traduzione e sempre in senso positivo.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Forse Last stories and other stories di William T. Vollmann, ma solo per la magnificenza del testo: per fortuna l'ha tradotto splendidamente Gianni Pannofino, io ci avrei messo dieci anni e sarei finito alla neuro.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Dal punto di vista economico non ancora: dovrebbero esserci quote di royalties riservate ai traduttori, molti editori – più spesso quelli piccoli – pagano troppo poco i traduttori e i revisori e la cosa ahimè si fa notare. Soldi a parte, sarebbe bello che il nome del traduttore fosse in copertina. Qualcuno ha cominciato a farlo, era ora.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Al mattino sempre lavarsi e vestirsi, andare a fare un giro e colazione al bar e solo dopo mettersi a lavorare. Lavorare qualche ora e poi fare una pausa pranzo soddisfacente e magari anche un pisolino post-prandiale. Lo dico perché la tendenza (dettata dall’ansia della consegna) è quella di passare dal letto alla scrivania e di trascorrere traducendo tutte le ore della giornata, in pigiama e ciabatte, abbrutiti e stressati. Non va bene, non si deve finire così.