Giunti Editore

— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Giacomo Longhi

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Giacomo Longhi

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Giacomo Longhi, traduttore dal persiano, che ha curato per noi l'edizione italiana di Tehran Girl di Mahsa Mohebali.

Ti piace questo articolo? Iscriviti alla newsletter, non perderti il prossimo!


Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Forse già al liceo. L’idea di fare il traduttore mi affascinava perché mi sembrava un mestiere legato al viaggio e alla scoperta. Così, all’università, ho scelto di occuparmi dell’area linguistica e culturale che mi sembrava di conoscere meno. A differenza di altri paesi lontani, come la Cina, la Russia o il Giappone, facevo proprio fatica a immaginarmi il Medio Oriente. Ho cominciato a studiare l’arabo e poi il persiano, solo perché era obbligatoria una seconda lingua. Non sapevo niente dell’Iran, né tantomeno dell’Afghanistan o del Tajikistan, dove il persiano viene parlato e usato ufficialmente. Ho studiato lingue per tradurre e scoprire qualcosa che era nuovo e sconosciuto soprattutto per me e poterlo condividere.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

È stato proprio con un romanzo di Mahsa Mohebali, Non ti preoccupare, che ho tradotto per Ponte33, una piccola casa editrice che dieci anni fa ha risvegliato l’interesse per gli scrittori di lingua persiana quando erano quasi del tutto assenti dalle librerie italiane. È stato un lavoro che ho amato tantissimo e mi ha rituffato nelle stesse atmosfere che avevo trovato nel film I gatti persiani di Bahman Ghobadi. Inoltre, ho avuto l’opportunità di essere seguito da Felicetta Ferraro, iranista d’eccezione e anima della casa editrice: dalla sua passione e dalla sua profonda conoscenza dell’Iran ho imparato tantissimo, le sue correzioni e i suoi consigli sono stati fondamentali per non muovermi alla cieca, ma dare a questo lavoro una direzione e una forma ben precise.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Non vedo l’ora di mettere mano a Pietra paziente di Sadeq Chubak, romanzo pubblicato negli anni sessanta e ambientato in una Shiraz sinistra e decadente. La traduzione è prevista per un progetto dell’istituto Ismeo e Ponte33 a cui stanno lavorando più traduttrici e traduttori e che ha lo scopo di far conoscere in Italia le punte di diamante della letteratura persiana del Novecento. Oltre a questo, spero che gli autori e le autrici con cui ho già lavorato continueranno a scrivere, a essere letti e io a tradurli.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Man mano che faccio esperienza, mi sembra che uno strumento fondamentale sia l’attenzione. Sembra scontato dirlo, ma non è così. All’inizio tendevo a concentrarmi solo su ciò che era più visibile, come il registro lessicale o i modi di dire, i riferimenti culturali, ma via via ho imparato che bisogna allenare l’occhio perché un testo è pieno di trappole di cui quasi non ti accorgi. Spesso le cose più banali, come una virgola o la congiunzione “e”, contengono degli indizi fondamentali per interpretare correttamente il significato di una frase. Bisogna fare attenzione a tutto, stare continuamente all’erta.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Sì, da quando traduco anche le letture “di svago” hanno smesso di esserlo fino in fondo, ma sono entrate un po’ a far parte del lavoro. La narrativa cerco di leggerla quasi solo in italiano, perché per quanto mi riguarda ci metto poco a perdere l’orecchio per la mia lingua e questo è un modo per tenerlo allenato. Anche quando leggo un romanzo per i fatti miei, c’è una spia del cervello che resta accesa e guarda la struttura delle frasi, il lessico, la punteggiatura… Tutto sommato è positivo, penso che tradurre mi abbia abituato a leggere in modo più approfondito.

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Lavorare con le autrici e gli autori iraniani è coinvolgente nel senso letterale del termine. Non c’è mai un rapporto freddo, limitato a uno scambio di email. Ci si sente al telefono, ci si conosce di persona, a volte si diventa amici, si fanno dei viaggi insieme. Forse parliamo di uno degli aspetti più belli del mio lavoro, che altrimenti sarebbe limitato alle ore solitarie passate davanti al testo. L’Iran è un paese dove la cultura ha davvero un risvolto concreto, dove più che mai al di là dei libri ci sono le persone che si incontrano.

E con gli editori per cui traduce?

Devo dire che ho sempre avuto scambi positivi. Spesso mi viene chiesto di fare anche delle proposte, soprattutto per quanto riguarda la letteratura persiana per cui non ci sono ancora dei veri e propri agenti, né traduzioni in altre lingue. Diciamo che è una letteratura ancora poco “testata” nei paesi occidentali, perciò discutere le proposte e arrivare a scegliere il libro insieme all’editore è un po’ come condividere una scommessa, c’è un pizzico di adrenalina.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

La fiera del libro di Tehran nel 2017. L’Italia era l’ospite d’onore e io lavoravo come interprete. È stata un’occasione unica per fare incontrare le autrici e gli autori iraniani con gli editori italiani, oltre che con le loro colleghe e colleghi scrittori. Per un paese come l’Iran, dove le sanzioni aggravano pesantemente l’isolamento culturale, è stata una vera boccata d’aria e una felice prova di diplomazia culturale.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Come penso capiti a tutti i traduttori, ci sono libri su cui avevo fatto un pensiero e poi non ho tradotto io. Per esempio ci sono romanzi come Spengo io le luci di Zoya Pirzad e Mio zio Napoleone di Iraj Pezeshkzad, che in Iran sono dei bestseller e quando facevo l’università non erano ancora usciti in italiano, perciò io e i miei compagni di corso fantasticavamo sul tradurli. Oggi li ha pubblicati Francesco Brioschi Editore, entrambi nell’ottima traduzione di Anna Vanzan, che prima di tutti ha aperto la strada a questa letteratura in Italia. C’è da dire che appena ho cominciato a fare un po’ di esperienza, mi sono accorto di quanto sia difficile e faticoso piazzare i libri e tradurli, perciò accolgo ogni romanzo persiano o arabo già tradotto in italiano come un lusso da gustare comodamente in poltrona, libero dai calcoli editoriali e traduttivi che sorgono spontanei nella mente di chi fa questo mestiere.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

La visibilità dei traduttori sta senz’altro crescendo, non sempre a questo corrisponde un effettivo miglioramento delle condizioni di lavoro. L’idea che tradurre sia un’attività a tempo pieno è ancora lontana dall’affermarsi. Sicuramente c’è molto da fare per garantire ai traduttori compensi e diritti adeguati alle loro competenze e alla mole di lavoro che sono chiamati a svolgere. In altri paesi europei, per esempio, i traduttori editoriali ricevono anche delle royalties oltre al compenso a cartella, una pratica che riconosce il peso di una buona traduzione sul successo del libro molto più del nome in copertina.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Informarsi da subito sul mercato editoriale, investire sulla propria formazione. Ecco, non buttarsi a tradurre senza avere in mente il quadro generale in cui si inserisce il proprio lavoro, non improvvisare. È vero che il cuore dell’attività che facciamo si svolge in solitudine, noi il libro e il pc, ma in realtà questo è un lavoro che ci mette in contatto con una marea di gente, dalla redazione, agli autori, ai lettori: è bene tenerlo presente per muoversi nel modo giusto.

Per Bompiani Giacomo Longhi ha tradotto