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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Francesco Peri

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Francesco Peri

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Francesco Peri: nato a Brescia nel 1980, ha studiato filosofia e storia dell’arte alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha pubblicato saggi sulla storia dell’estetica, studi sulla letteratura contemporanea e numerose traduzioni italiane di autori francesi, tedeschi, inglesi, russi e georgiani. Nel 2007 ha ricevuto il premio Italo Calvino per la narrativa. Per Bompiani ha tradotto I figli dei nazisti di Tania Crasnianski e L'Avana di Mark Kurlansky.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Non si può dire che lo abbia deciso. In una fase tormentosa della mia carriera universitaria, grazie a un concorso di circostanze, ho capito che erogando lavoro a cottimo invece di brigare improbabili finanziamenti e assegni di ricerca avrei potuto fare quello che mi andava senza scendere a compromessi morali o scientifici. È stato un grande sollievo! Continuo a percepirmi come uno studioso, come un accademico “puro”, anche se insegno pochi mesi l’anno e pubblico di rado: ma se non altro vivo sul mio e del mio. Di recente, dopo anni di severa disciplina, ho conseguito un secondo dottorato qui a Parigi, finanziandolo interamente con la mia attività editoriale. Scegliere questo mestiere, in altre parole, è stato un modo per rispondere con la fierezza, il talento e la forza fisica allo stato di impotenza e subalternità nel quale a volte ristagna chi ha scelto una carriera intellettuale. Ho dovuto rinunciare a molte cose, ma ho anche fatto moltissime scoperte non preventivabili, e soprattutto non ho mai violato il mio personale codice cavalleresco. (In generale, poi, si “diventa” traduttori? Oppure a un certo punto, come succede agli artisti, iniziano a pagarti per fare qualcosa che uno avrebbe fatto comunque, magari solo nella propria testa? Io ero portatore sano di traduzione anche quando facevo soprattutto ricerca.)

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Parole per le immagini di Michael Baxandall, uno storico dell’arte gallese alla cui opera mi sento ancora molto legato. All’epoca ero piuttosto giovane, laureato da tre o quattro anni, ma l’editore, Bollati Boringhieri, ha accolto la proposta, mi ha affidato traduzione e curatela e mi ha perfino concesso il vezzo di una “nota del traduttore”. Prima di allora avevo tradotto articoli e saggi in sedi più accademiche: a titolo di servizio, come si dice (i.e. for peanuts). Quella prova sulla lunga distanza ha creato un precedente utile al momento di saltare il fossato per scoprirmi uomo di case editrici, più che di aule universitarie e convegni.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Nel mio campo di specialità, una saggistica di alto impegno formale e terminologico, è molto raro che sia il traduttore a scegliere i suoi libri. Può succedere a figure intermittenti che lavorano in funzione di specifici interessi, però non è il mio caso: io devo sbrigare almeno sei o sette titoli l’anno, pro pane lucrando. Di norma i progetti mi vengono assegnati (o, per meglio dire, garbatamente proposti). È una dimensione che accetto volentieri, con umiltà e spirito di avventura: vengo chiamato per risolvere problemi, non per far valere i miei gusti. Mi è capitato di tradurre libri che non avrei sfiorato con una pertica, e di farlo nonostante tutto con scrupolo artigianale. Poi ogni tanto segnalo o propongo delle cose, certo. Nei prossimi anni, per esempio, mi sforzerò di far passare più autori georgiani: prosatori classici come K’onst’ant’ine Gamsakhurdia, Nodar Dumbadze e Otar Č’iladze, o magari qualche vivente. La dimensione ottativa (o diciamo pure velleitaria) del mestiere sopravvive oggi a questo livello: nella mia fissazione masochista per la lingua georgiana.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

L’orecchio! Non si traduce bene senza un sentimento vivo della prosodia, del ritmo, dell’armonia vocalica, del cozzo e dell’attrito che fanno le consonanti, del modo in cui gli aspetti metrici e fonetici plasmano la frase ben riuscita. Dopotutto il nostro mestiere consiste nel creare un testo nella lingua d’arrivo – che non è certo l’orrendo traduttese! “Orecchio”, però, vuol dire anche una fusione primordiale con la lingua di partenza: significa afferrarne per istinto educato i tempi, i volumi, i vezzi, le abitudini, gli abissi etimologici, le asincronie interne… Anche per questo, pur adorando i dizionari come letteratura, non concepisco la traduzione “con il dizionario”. Lacune lessicali e idiomatiche a parte, non si traduce a partire da lemmi, ma dalla totalità vivente della lingua esperita dall’interno: soltanto così, per differenziali e triangolazioni, si può arrivare a distillare la famosa “voce” di un autore, a misurare in che cosa stacca dal brusio della norma e in che cosa, invece, dipende dalle inerzie dello strumento. A pensarci è una faccenda un po’ humboldtiana: la lingua come organismo, come Tutto, come visione del mondo. Qualcosina di vero c’è! Se uno realizza questa sintonia, questa comunione, può anche sbagliare di quando in quando e perfino – cielo! – concedersi qualche libertà. Ne ha mangiate, di note, Rubinstein!

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Comprimendo senza pietà il tempo e l’energia che posso ancora dedicare ai libri comprati per piacere o studio (anche se, a giudicare da come siamo messi in casa, non l’ha compressa abbastanza). Non saprei dire se è per vezzo, per nevrosi o per deontologia, ma non leggo quasi mai traduzioni italiane, sempre e solo originali o edizioni in lingue franche come il francese, l’inglese o il tedesco, per cui le dimensioni restano ben separate: capita di rado che il “mestiere”, nei due sensi del termine, interferisca con la lettura, facendomi vedere la traduzione e non l’opera (o magari le maniere dei colleghi!). Forse diciamo che l’habitus del traduttore salta fuori nell’approccio talvolta molto deliberato e “meta-” che vizia (o arricchisce?) il mio modo di leggere: dopo tanti anni prendo ancora appunti sulla terminologia, la fraseologia, gli arcaismi, gli usi idiosincratici… Mando a memoria i termini tecnici più improbabili, che poi spesso mi salvano la pellaccia, magari a distanza di tempo. Leggo sempre come se poi mi toccasse tradurre, a una temperatura di incandescenza intellettuale, perfino quando leggo dei gialli (soprattutto perché autori come Chandler o San-Antonio, tanto per dire, sono da spuntarsi le corna). Ogni libro è un momento di una grande, continua e personale conversazione con le lingue e con la lingua. Ogni lettura lascia una traccia, una nota, una sensazione cinestesica, una sfumatura, un termine, un pattern, uno stratagemma, un’atmosfera che presto o tardi vengono buoni anche per tradurre i testi belli e brutti che mi danno da mangiare. Vedi sopra, alla voce “orecchio”.

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Di certo non personale! I rari casi in cui c’è stato un contatto non sono stati buoni (con qualche bella eccezione). Da un lato si potrebbe dire che il rapporto con l’autore è “mimetico”, nel senso più arcaico del termine: quello teatrale. Il traduttore recita una parte, incanala una voce, fa leva sul proprio repertorio gestuale e timbrico per materializzare un carattere – che sia edificante oppure odioso. Quantomeno ci prova. Al tempo stesso, passando dalla prosa teatrale alla prosa della vita, il traduttore è come un idraulico: viene chiamato per sistemare le cose, per compiere un gesto esperto, e per farlo in tempi rapidi (i lettori non sospettano quante migliaia di scelte ci tocca improvvisare su due piedi ogni giorno, con le deadline sul collo). In entrambe le vesti – e nonostante io abbia idee molto chiare, perfino intransigenti su che cosa significa scrivere bene – mi considero un professionista ingaggiato per fare un lavoro. Non sempre ho opinioni sui libri che traduco: vedo soprattutto il “da farsi”, cioè l’insieme dei processi che governano la transizione da un testo originale a un manoscritto che possa degnamente andare in bozze. Non c’è nulla di arido o esteriore in questo, come non è “inumano” lo sguardo del medico: il traduttore incontra sempre l’autore sul terreno del “da farsi”, in termini di problemi che vanno risolti, e possibilmente risolti con garbo. Non è lo stesso autore con cui se la vede il lettore: è la sua radiografia. Spesso il rapporto è di forte intensità, magari anche di complicità. In certi casi di benevola o incredula indulgenza, specialmente quando si lavora su stesure provvisorie o prime bozze (“Il n’y a pas de grand homme pour son valet de chambre” si diceva una volta). Rimane pur sempre un tipo di rapporto – chiamiamolo privilegiato – che solo un traduttore può intrattenere con un’opera e il suo autore, anche perché alla fine il nome sul frontespizio è il suo.

E con gli editori per cui traduce?

Qui, molto spesso, il legame diventa personale. Di stima, di amicizia, di cameratismo… Anche sul medio e lungo termine. Il redattore e il traduttore sono specie simbiotiche, non si fanno concorrenza, e quindi convivono abbastanza bene. Ho sempre instaurato rapporti cordiali con tutti i miei clienti, a ogni livello. Non si può tradurre con la bocca storta, non ne vale la pena. Soprattutto è fondamentale, per me, comunicare sicurezza, ispirare fiducia e sentire che da me ci si attendono perfetta puntualità, soluzioni ragionate e tracciabili, fantasia e puntiglio nell’uso della lingua, padronanza degli aspetti tecnici ecc. Occorre andare fieri del lavoro che si vende! A differenza del redattore, il traduttore è un soldato di ventura, un mercenario; in molti casi – come in certi filmacci americani – l’editore cerca proprio me perché il lavoro è sporco, veloce, difficile, rognoso, delicato. Ho un discreto portfolio di ingaggi da specnaz della mediazione linguistica. Ho un profilo particolare, forse anche una punta di “reputazione”, per cui alcuni libri, a volte, arrivano con il mio nome scritto sopra. In altri casi aggiusto rubinetti normali, cioè prendo quello che viene. All in a day’s work.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Vedermi proporre, riuscire a tradurre e portare alla pubblicazione La santa tenebra di Levan Berdzenišvili, un libro di memorie sul Gulag. Non solo è il primo testo di un georgiano vivente tradotto da un madrelingua italiano per un grande editore, cioè pubblicato in un’ottica di vero mercato e non di samizdat più o meno inconsapevole; non solo dà senso a dieci o quindici anni di lavoro a fondo perduto su una lingua di proverbiale difficoltà, ma ho raccolto quella sfida mentre chiudevo un importante progetto accademico, con un figlio piccolo per casa, con altri lavori alimentari in ballo… Rispettare il contratto ha richiesto una concentrazione, una tenacia, una fantasia e una forza muscolare costantemente all’estremo dello spettro. È un libro dalle mille ibridazioni linguistiche, pieno di forme colte, volgari, dialettali, pieno di russo storpiato, di relitti lessicali, di allusioni e sovietismi: ha spremuto a fondo tutto quello che sapevo, che so fare e che potevo imparare a fare. In frangenti in cui nessuno poteva aiutarmi. E il risultato, con mia soddisfazione, è discreto! Soprattutto per la bella copertina cartonata.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Forse Filosofia della musica moderna di Theodor W. Adorno, sul quale ho lavorato in gioventù e che mi sarebbe piaciuto, diciamo, riaccordare. A parte questo non ci sono territori che avrei voluto occupare io, autori che spettavano a me o classici sul cui perimetro avrei voluto lasciare il mio goccetto, alla maniera dei barboncini che passano dietro ai dobermann. Invidia per invidia, tanto valeva continuare a lavorare nell’università… Quando invece, a guardarsi un po’ intorno, le cose ancora da fare sono tante e tanto belle! Quello che un giorno poterebbe essere un magnum opus, dal mio punto di vista, sarebbe un’edizione annotata e ben verseggiata del Cavaliere dalla pelle di pantera, il poema epico di Šota Rustaveli, scritto nella lingua arcaica e maestosa del XII secolo georgiano.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

No di certo, ma la cosa, personalmente, non mi turba. Vedere citato il proprio nome fa piacere, ma il mio investimento personale ed emotivo nella traduzione tende a esaurirsi nel gesto del lavoro, nello zelo artigianale, nel compito ben svolto. Parlo solo a mio nome, nel pieno rispetto dei colleghi che ambiscono a un’altra visibilità, per sé o per la categoria. La mia personale concezione del mestiere, un po’ ascetica e un po’ marziale, in ogni caso vissuta nel segno della disciplina, riguarda me solo. Forse perché ho altre fonti di gratificazione e autostima, forse perché ho la sensazione di essere stato “salvato” dall’editoria sull’orlo di un abisso di umiliazioni. Non me ne vogliano i colleghi che lottano: in astratto la penso come loro. Ma nel privato procedo a testa bassa: macino cartelle, incasso il dovuto, rosico il meno possibile e faccio la mia vita. Poco male se la gente crede alla favola delle traduzioni achiropite.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Sii credibile, porta rispetto all’arte, sbaglia pure ma rifuggi a ogni costo dalla sciatteria. Premesso che nessuno “diventa” traduttore se non lo è già un po’ sempre stato, la traduzione rimane un lavoro che si apprende, e il professionismo è una faccenda seria. Un conto è diffidare dalle trappole tese ai principianti, cioè tutelarsi dalle fregature; un conto è fare quello che si meritava ben altro. Si traduce sempre e solo con la mano destra, anche dattilografando a dieci dita, anche quando l’autore ha scritto con i piedi! Le competenze tecniche si possono acquisire; gli arcani dell’industria si rivelano via via; un mentore bravo può temprare il carattere. Quello che invece soltanto l’aspirante può fare è cercare di essere sempre il traduttore che lui stesso sceglierebbe di ingaggiare se avesse fondi rosicati e nessun margine di manovra (neppure gli editori, come il commendator Bistefani, sono Babbo Natale). In termini pseudo-kantiani: traduci come se ciascuna delle parole che scrivi dovesse restare nero su bianco in diecimila copie per venti o quarant’anni a venire – il che è precisamente quello che accade.