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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Francesca Gatti

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Francesca Gatti

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Francesca Gatti, traduttrice per noi di Tutto il bene che si può di Rye Curtis.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Penso di aver sempre subito il fascino della traduzione. Fin da quando ho iniziato a leggere in modo più continuo e consistente, circa dagli undici anni in poi. Controllavo per curiosità quale fosse il titolo originale dei libri e chi li avesse tradotti. Mi affascinava l’idea di sapere da dove venisse quel che stavo leggendo. Poi questa passione è cresciuta durante gli anni del liceo. Avendo frequentato il liceo classico, tradurre era una parte molto importante delle mie giornate. Mi sono confrontata così con lo sforzo di scegliere le parole e disporle nel modo più bello, nel modo che meglio rispettasse l’antico testo che avevo davanti. Da lì poi è stato un percorso in discesa. Una volta finita la triennale in lingue e letterature straniere presso l’università degli studi di Milano, con una tesi incentrata proprio sul contatto linguistico tra greco patristico e slavo ecclesiastico, mi è sembrato naturale proseguire i miei studi in quella direzione. Mi sono quindi iscritta nel 2017 alla Civica scuola interpreti e traduttori A. Spinelli, dove ho avuto modo di incontrare traduttori molto importanti come Franca Cavagnoli e Bruno Osimo e imparare da loro nel modo più diretto possibile.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Il primo libro che ho tradotto è stato La danza macabra dei Thyssen di David R.L. Litchfield, edito da Mimesis nel 2019. L’ho tradotto assieme ad altre tre colleghe traduttrici, nel contesto di uno stage offerto dall’università. Mi ricordo chiaramente la fatica del confrontarsi con un testo così lungo e complesso, ma anche la gioia di vedere finalmente il prodotto finale in libreria. Il mio primo lavoro completamente da sola, invece, è stato Tutto il bene che si può di Rye Curtis, edito appunto da Bompiani. È stata un’esperienza davvero incredibile, resa ancora più interessante dal fatto che, in fondo, era un debutto per me e per lo scrittore, entrambi alle prese con la nostra prima pubblicazione da soli. Questo mi ha aiutata a sentirmi più vicina al libro, determinata a fare del mio meglio per rendere giustizia alle sue parole.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Mi piacerebbe molto tradurre qualcosa dal russo, in particolare la narrativa moderna che mostra un lato creativo della Russia secondo me ancora non del tutto valorizzato. L’offerta letteraria delle librerie italiane si sta espandendo moltissimo, con autori provenienti da culture prima rare o ignote. Sarebbe bello vedere qualcosa di più rispetto a Tolstoj e Dostoevskij sugli scaffali. Dal lato della letteratura anglofona, invece, ho sempre sognato di tradurre una saga young-adult, genere che è stato l'origine del mio avvicinamento alla lettura. Sarebbe come tornare al punto di origine.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Gli strumenti più importanti sono due, secondo me: un buon dizionario delle collocazioni e tanta curiosità. Il primo è un vero salvavita. Nelle situazioni in cui la stanchezza prende il sopravvento e si rischia di appiattire il testo usando sempre le stesse cinque parole, il dizionario delle collocazioni aiuta tantissimo a rendere meglio la diversità del testo originale. La curiosità, invece, è fondamentale per chiunque traduca in qualsiasi ambito. Avere la voglia di andare a cercare ogni cosa che non si conosce, dedicare del tempo alle ricerche e non partire mai dal presupposto che una conoscenza superficiale sia sufficiente per risolvere il problema. La curiosità rende questo processo molto più leggero e, anzi, soddisfacente.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Senza ombra di dubbio, sì. Il modo in cui leggo adesso è molto più attento e, se da un lato mi rende ipersensibile a una “brutta traduzione”, mi permette anche di apprezzare i piccoli dettagli, le minuzie tecniche di quel che ho davanti. È come se improvvisamente si potessero apprezzare più colori di un dipinto che prima non si vedevano. Se il libro invece è in lingua originale è praticamente impossibile esimermi dal pensare come potrei tradurre io quelle parole. La traduzione diventa una forma mentis, non ce ne si può liberare. Once a translator, always a translator.

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Per adesso il legame è tra me e il testo, ed è solo attraverso quello che mi metto in contatto con l’autore ma mi piacerebbe in futuro conoscere meglio gli autori con cui si spera lavorerò.

E con gli editori per cui traduce?

Posso dire di aver avuto due esperienze davvero belle con gli editori per cui ho lavorato. Penso si formi un legame di mutua fiducia e rispetto, che sono entrambe cose fondamentali. Mi piacerebbe decisamente rimanere in contatto con le persone che hanno collaborato con me a questo mio primo progetto.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Spero non sia una risposta scontata il fatto di avere una carriera. La traduzione per l’editoria è sempre stato il mio sogno, e l’idea di essere arrivata qui è forse la cosa più bella della mia (per adesso) breve carriera. Spero di collezionare molti altri ricordi fatti di pagine, di soluzioni insperate alle dieci di sera quando il testo ormai sembra non avere più senso. Spero di conoscere gli scrittori di cui tradurrò le opere, ma soprattutto spero di continuare a tradurre.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Mi piace sognare in grande, lo ammetto. Mi piacerebbe aver tradotto uno dei miei libri preferiti, Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Se dovessi, invece, guardare alla narrativa anglofona, mi sarebbe piaciuto tradurre qualcosa di Tolkien, che rimane per me uno dei grandi maestri della letteratura del genere fantastico. In generale, mi piacerebbe aver contribuito alla creazione di un universo intero in cui lettore si può immergere completamente.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Più di prima. Nel mondo editoriale vedo sempre più traduttori finire in copertina, parlare delle loro traduzioni affiancandosi agli scrittori, ma c’è ancora molta strada da fare. Penso che una certa percentuale del pubblico, sempre maggiore, sia consapevole dell’origine del testo tradotto ma ancora tante, troppe, persone ignorano che la lingua in cui stanno leggendo non è quella originale. Tanti traduttori sono invisibili nonostante il loro lavoro, ma stiamo andando nella giusta direzione. Incrocio le dita per il futuro.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Leggere tanto, sempre, e non perdersi d’animo. Non è un mestiere facile, come del resto ogni mestiere, e leggere tanto, sia in italiano che nelle proprie lingue di lavoro, equivale a non fermarsi mai dal punto di vista formativo. È di grande importanza imparare dai maestri della lingua italiana e poi apprezzare anche l’evoluzione della lingua con gli scrittori contemporanei. La stessa cosa va fatta con la letteratura straniera. Non si può tradurre senza conoscere i due mondi che il traduttore andrà a unire con un ponte. Si fa un disservizio al libro e al pubblico che lo leggerà. Per questo non bisogna perdersi d’animo. È un percorso senza punto d’arrivo, ma è un percorso meraviglioso che rifarei mille volte.

Per Bompiani Francesca Gatti ha tradotto: