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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Dóra Várnai

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Dóra Várnai

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Dóra Várnai, traduttrice per noi delle opere di László Krasznahorkai.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Sono cresciuta bilingue in una famiglia che si è spostata più volte tra Italia e Ungheria, non ho fatto studi specifici, però traducevo in continuazione sin da piccola: tra parenti ungheresi e amici italiani, tra gli insegnanti delle mie varie scuole, e via dicendo. Fin dal liceo ho poi iniziato a svolgere brevi lavori di traduzione per guadagnare qualche soldo: lettere commerciali, testi turistici, un dizionario tascabile, e simili. Passare da una lingua all'altra mi sembrava la cosa più naturale del mondo, e quindi anche un po' scontata e banale, e per questo ogni volta che mio padre mi parlava della possibilità di diventare “ufficialmente” una traduttrice, io rispondevo che non ero affatto interessata a farne una professione vera e propria. Durante gli anni universitari, sono però cominciate ad arrivarmi richieste più serie e impegnative, che non si potevano risolvere nei ritagli di tempo. In particolare mi era stata offerta quasi in contemporanea la possibilità di fare da interprete in un caso penale in un tribunale italiano e la traduzione in ungherese di Della tirannide di Vittorio Alfieri. Svolgendo questi lavori mi sono resa conto che cercare di tradurre bene testi complessi, che fossero letterari o tecnici, non era per niente un'attività scontata, né tanto meno semplice o facile, al contrario: era un percorso tortuoso, pieno di tranelli, ma anche di questioni interessanti, di sfide che mi sarebbe piaciuto continuare ad affrontare in futuro, e con maggior consapevolezza.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Non sono stata molto fortunata con le mie prime “opere”: del testo già menzionato di Alfieri solo poche pagine sono state in seguito pubblicate in un'antologia. Più avanti ho tradotto in italiano diversi racconti, saggi, testi teatrali e libretti d'opera, ma il primo romanzo a cui avevo lavorato molti anni fa, Guerra e guerra di László Krasznahorkai, esce solo ora, dopo varie mie revisioni e riscritture, e soprattutto dopo altri due romanzi dello stesso autore da me già tradotti per Bompiani.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Naturalmente mi piacerebbe riprendere in mano gli autori che ormai sento come “miei”, László Krasznahorkai e László Darvasi, di cui ho tradotto due libri per Il Saggiatore, però mi piacerebbe altrettanto lavorare ad alcuni grandi classici, magari pubblicati in italiano decenni fa e quindi oggi di fatto introvabili, come Móricz, Mikszáth, Jókai, Gárdonyi, Tamási. Oppure portare avanti il lavoro sulla drammaturgia contemporanea già avviato con le traduzioni di alcuni testi teatrali (Spiró, Egressy, Pass e altri), per non parlare degli splendidi volumi ungheresi per l'infanzia (non esiste solo I ragazzi della via Pál)... insomma, è davvero difficile scegliere, ci sono tantissimi bei libri ungheresi che i lettori italiani ancora non conoscono!

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

La curiosità. Leggere tanto ed essere curiosi. Avere la mente aperta anche quando non si lavora a un testo specifico, perché non si può mai sapere quando un'esperienza all'apparenza lontanissima dalla traduzione tornerà utile per capire un termine tecnico, cogliere un riferimento, o risolvere una frase su cui si è fermi da giorni. Poi, certo, servono anche i buoni dizionari, la rete è una risorsa infinita e preziosissima, così come i colleghi più anziani da cui imparare i trucchi del mestiere...

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Da traduttrice seziono il testo su cui lavoro, lo faccio a pezzi, lo analizzo, mi chiedo il perché di ogni scelta dell'autore, di una parola o espressione fuori dall'ordinario, ma anche di quelle che mi sembrano troppo normali. Questa attitudine mi resta attaccata in qualche modo anche quando leggo per piacere: mi chiedo come mai l'autore – o il suo traduttore – abbiano optato per questo verbo o aggettivo e non per quell'altro, come poteva essere in originale questo passaggio o quel gioco di parole, ecc. In altre parole: sono diventata mooolto più lenta nella lettura.

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Cerco di non tempestarli di domande, anche quando il primo istinto sarebbe quello! Li contatto solo se non riesco a trovare una soluzione che mi soddisfi per davvero. Finora ho sempre riscontrato una grande disponibilità da parte di tutti i miei autori, anche quando di persona si sono rivelati molto diversi da come – basandomi sui loro testi – mi sarei aspettata.

E con gli editori per cui traduce?

Anche in questo caso posso dire che ho trovato collaborazione e gentilezza da parte di quasi tutti. Di rado ci si incontra anche dal vivo, ma quelle poche occasioni sono sempre state un piacevole modo di imparare cose nuove e approfondire aspetti dell'editoria che lavorando da sola a casa non avrei potuto conoscere.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Ci sono tanti momenti belli: la consegna - dopo mesi o anni di lavoro - di un testo finalmente pronto (o quasi), l'uscita del libro, le prime recensioni o i primi riscontri da parte dei lettori. Con Satantango di Krasznahorkai inoltre c'è stata la soddisfazione degli inviti a due prestigiosi premi: il romanzo era infatti finalista sia al Premio Gregor von Rezzori 2017 come migliore opera di narrativa straniera, sia al Premio Strega Europeo 2017.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Ovviamente – non è forse il sogno segreto di tutti i magiaristi? – le poesie di Attila József. So già, però, che non oserò mai metterci mano. Mi limito ad ammirare il coraggio e la bravura di chi si è cimentato in questa impresa titanica, come Edith Bruck.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Purtroppo no. Qualche passo in avanti negli ultimi anni è stato fatto, certo, ma basta considerare che sono pochissimi i colleghi, pur bravissimi, che riescono a vivere di sola traduzione editoriale, per capire che la strada è ancora molto, troppo, lunga. Eppure i traduttori potrebbero essere i migliori alleati sia degli autori sia degli editori, se solo glielo permettessero!

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Considerato il mio percorso atipico, non credo di essere la persona giusta per dispensare consigli, l'unico suggerimento che mi sento di dare di tutto cuore è quello di iscriversi, appena si è deciso di voler fare sul serio, a una delle associazioni professionali del settore: Strade - sindacato dei traduttori editoriali, Aiti, Acta, o altri. In queste organizzazioni si trovano tanti colleghi, bravi ed esperti, disponibili a rispondere a ogni dubbio, una fonte davvero preziosa per chi vuole imparare e mettersi alla prova con l'idea di fare della traduzione un mestiere.