In un’intervista su “D di Repubblica” a proposito dei Vagabondi, Olga Tokarczuk ha detto che questo suo libro è letteralmente composto di frammenti: ogni storia una pagina, o cinque, o ventisette, che poi lei ha disteso o sparpagliato attorno a sé sul pavimento per salire infine su una sedia o un tavolo a contemplare dall’alto l’arcipelago di carta da lei creato e decidere quale ordine dare a tutte quelle pagine.
Chissà se è vero, o se non sia invece un dubbio su di lei raccontatrice, sulla sua credibilità, se non sia piuttosto l’immaginazione di chi scrive ad attribuirle un atto così poetico e demiurgico insieme, mescolando l’episodio ascoltato o letto – forse non proprio in questo modo – con una visione a distanza della sua casa fotografata per la bella conversazione con Wlodek Goldkorn su “D”: un tavolo c’era, grigio, il grigio del bianco e nero o forse del legno molto consumato da anni di piatti, stracci e scritture, e poteva essere un buon posto d’avvistamento per salirci e starci senza troppa paura di cadere e poi, una volta saliti, sorvegliare da un’altezza media eppure notevole un’opera desiderosa di prendere forma.
Il lettore dei Vagabondi ha bisogno di visioni e scostamenti, di libertà e leggerezza per assecondare gli scarti logici squisiti secondo cui Olga Tokarczuk ha montato (o forse no) il suo romanzo. Ha bisogno di lasciarsi andare e di accogliere il mondo, come un viaggiatore o pellegrino che cammina e va senza ansia o fretta, e raccoglie quello che viene, nell’ordine o disordine della vita come viene.