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Nuove traduzioni. “La condizione umana” di André Malraux

Nuove traduzioni. “La condizione umana” di André Malraux

L'opera di rinnovamento del catalogo Bompiani passa, come lettori e lettrici sanno bene, anche dalla commissione di nuove traduzioni di opere amate e celebri e di autori e autrici importanti. Vi raccontiamo la storia della Condizione umana di André Malraux, ritradotto da Stefania Ricciardi per i Classici contemporanei, di cui proponiamo parte dalla postfazione al romanzo firmata da Simone Barillari.

 

 

Nato a Parigi. Responsabile di una missione archeologica in Cambogia e Thailandia per il Ministero delle Colonie (1923). Commissario del Partito Nazionalista Cinese in Cocincina e Indocina (1924-1925). Responsabile della propaganda presso la direzione del movimento nazionalista a Canton (1925),

Così recita la breve biografia che il giovane André Malraux ha steso per il risvolto di un suo libro. [...] Nel maggio del 1933 si appresta a dare alle stampe un terzo romanzo, La condizione umana, sulla recente rivoluzione di Shanghai, in cui dice di aver lottato a fianco dei comunisti. Suscita l’entusiasmo non solo di scrittori e intellettuali – Gide, Edmund Wilson, Il’ja Erenburg, perfino Trockij – ma finalmente anche di centinaia di migliaia di lettori – venticinque edizioni in pochi mesi – e in dicembre vince all’unanimità il premio Goncourt per la sua “trilogia asiatica”: “l’uomo-che-è-tornato-dall’Oriente” ha appena compiuto trentadue anni, è il più celebre e celebrato scrittore della sua generazione – e l’unica cosa vera, in quella biografia, è che è nato a Parigi.

L’autore delle Antimemorie continuò a ripetere a tutti la sua ostinata leggenda anche quando si cominciò a conoscere la verità – “il responsabile della propaganda” cantonese aveva diretto un piccolo giornale di Saigon ed era stato a Canton solo di sfuggita, l’incaricato della “missione archeologica” del Ministero aveva rubato sculture millenarie dai templi della Cambogia e della Thailandia per rivenderle in Europa, il rivoluzionario di Shanghai era stato a Shanghai solo quattro anni dopo la rivoluzione – ma “ogni avventuriero”, avrebbe risposto lui, “è nato da un mitomane”, e Malraux crederà sempre nella sua gloriosa giovinezza dannunziana. [...] 

Comunque sia, fu solo quando dalla sua vasta saga orientale cominciò a scrostarsi la doratura della leggenda che i suoi tre romanzi apparvero finalmente per quello che erano – ardita spedizione non dell’Oriente ma della Letteratura – e che La condizione umana fu letta non per come Malraux l’aveva annunciata – un libro “scritto sulle barricate” – né per quello che era diventata nel tempo – il libretto rosso dell’Occidente che aveva convertito al comunismo migliaia di militanti, l’incendiario manuale dei giovani contestatori degli anni sessanta – ma per quello che un grande scrittore – e anche un grande scrittore nasce sempre da un mitomane – ne aveva fatto con lenta furia, di riscrittura in riscrittura: un’opera miliare del Novecento, l’Arco di Trionfo della modernità in marcia.

Malraux non pensò mai di scrivere un romanzo storico – semmai, un romanzo sulla Storia – e mise nel libro più quello che aveva imparato all’École des langues orientales che quello che aveva visto in Oriente. A Shanghai era sempre rimasto nel quartiere francese, e ambientò lì gran parte della storia, anche se la rivoluzione era scoppiata tra i moli del porto; rendendosi conto di non conoscere abbastanza a fondo i cinesi, scelse come protagonisti della sua storia d’Oriente quasi solo uomini e donne occidentali [...]; lesse attentamente, per documentarsi sui giorni della rivoluzione, i dettagliati reportage di Andrée Viollis, corrispondente di guerra del Petit Parisien [...] e comprò alcune cartoline di Shanghai per completare le descrizioni della città. Alla fine Malraux, osservò qualcuno, aveva scritto un romanzo in cui la Rivoluzione era “il meraviglioso moderno” come le Crociate erano state “il meraviglioso cristiano”, una grande chanson de geste sull’Estremo Oriente, con preti, martiri e folle cenciose... 

In realtà, Malraux volle sempre fare della Condizione umana un romanzo filosofico (si può fare filosofia, disse, “mostrando un mondo invece che costruendo un sistema”) alla stregua dell’Ulisse di Joyce e del Viaggio di Céline, di Santuario di Faulkner e della Montagna incantata di Mann, di quelle grandi opere del tramonto dell’Occidente che si interrogavano sull’Uomo – e su quello che ancora ne rimaneva dopo che Dio era morto. Scrisse il libro come una lunga meditazione esistenzialista su uno dei pensieri di Pascal, da cui trasse il titolo:

Immagina un gran numero di uomini in catene, tutti condanna- ti a morte, alcuni dei quali siano ogni giorno sgozzati sotto gli occhi degli altri; quelli che restano vedono la propria condizio- ne in quella dei loro simili e, guardandosi tra loro con dolore e senza speranza, aspettano il loro turno. Questa è l’immagine della condizione degli uomini. 

(fr. 341)

[...] Il genere umano non è che una giustapposizione di solitudini. La condizione degli uomini è sempre stata la solitudine – e Dio è stato l’infinita compensazione della solitudine dell’umanità –, la condizione dell’uomo moderno è la coscienza della solitudine, perché si rende conto, grazie a una macchina, che sente la sua voce in modo diverso da come la sentono gli altri – che sente la sua voce “con la gola”, e quella degli altri con le orecchie – che parla senza essere capito, e ascolta senza capire. L’uomo moderno non solo vede ogni giorno con i suoi occhi la morte degli altri condannati, ma sente nelle orecchie le loro grida di morte, e sente intanto, con la gola, la sua voce che vuole vivere. [...]

La Rivoluzione, per Malraux, è il lungo soffio dell’Essere sulla Storia, è la condizione degli uomini di cui un giorno sarà il mondo – la Rivoluzione di Malraux, dopo che è fallita la Religione di Pascal, è la grande scommessa dell’Uomo rimasto senza Dio, in cui può tornare a trascendere con la sua fede la sua finitezza – perché l’Uomo può sopportare la sua vita solo se crede con la stessa certezza con cui sa di dover morire – solo se crede contro l’evidenza, che è sempre l’evidenza della morte. [E] Malraux non poté che dare a una storia sulla condizione umana la struttura di una tragedia greca. [...]

Compiendo un altro dei suoi esperimenti di demiurgo, Malraux mette in scena questa antica tragedia greca come un moderno film d’autore, e diventa uno dei primi scrittori del secolo a pensare per immagini cinematografiche. Racconta di aver girato nella sua mente tutta la scena nel cortile dei prigionieri a partire da un’immagine originaria – le mani che cercano il cianuro caduto a terra e si stringono in un gesto di fratellanza – che vedeva ripresa in primo piano, e che, diceva, non avrebbe avuto senso a teatro, dove non si può mostrare niente da vicino. Spiega che il cinema è diventato un’arte il giorno in cui il regista ha scoperto che “la macchina da presa è indipendente rispetto alla scena” e ha studiato “come dividere il racconto in inquadrature”; e teorizza, rifacendosi a Ejzenštejn, una “letteratura di montaggio”: scrivere per inquadrature, descrivere per accostamenti. Comincia a pensare una storia come una serie di immagini non solo in continuità ma anche in contrasto tra loro, come una serie di scene non solo concatenate ma anche contrapposte, cercando di produrre il senso come una scintilla nell’attrito tra due parti. [...] La condizione umana, per certi versi, è costruita non solo una scena dietro l’altra ma anche una scena contro l’altra. [...]

Infine Malraux adotta spesso le tecniche del cinema d’autore degli anni venti: i giochi di ombre dell’espressionismo tedesco di Lang e Murnau [...]; gli improvvisi stacchi su dettagli visti come in primissimo piano (soprattutto i volti, le mani) come nei film di Ejzenstejn, le carrellate in avanti [...], e certi raccordi tra due scene tipicamente cinematografici [...].

Nel kolossal della sua mente Malraux fa recitare otto personaggi che sono altrettante visioni del mondo e che, come disse di quelli di Dostoevskij, “sembrano nati gli uni dagli altri, come incarnando gli stadi successivi della filosofia dell’auto re”. [...] Malraux vuole stare dietro ogni suo personaggio, vedere quello che vede lui, percepire le sue sensazioni – vuole stargli così vicino da sentire a tratti quello che pensa. Scrive come da dietro un altro io, con la tecnica del punto di vista a focalizzazione interna – la narrazione attraverso lo sguardo di un personaggio, che è come un io in terza persona –, e moltiplica i punti di vista interni alla storia, passando da un personaggio all’altro per raccontarla [...]. Sono otto i personaggi attraverso cui viene raccontata la storia, più che in qualsiasi altro romanzo scritto fino a quel momento: il narratore onnisciente dell’Ottocento raccontava un mondo di uomini su cui Dio vegliava dall’alto, ma dopo che Dio è morto il narratore deve raccontare un mondo di uomini sempre più soli e numerosi attraverso il coro incrinato delle loro voci, il compromesso provvisorio delle loro visioni – tentando di riprodurre ogni voce come quell’uomo la sente “con la gola”, di ricostruire ogni visione del mondo come quell’uomo la considera: una visione dal basso, limitata – ma sua; una visione parziale – ma parte del tutto.

[...] Viene da pensare, alla fine, che Malraux abbia scritto una sorta di opera mondo sentendo però che il mondo non poteva più stare in un’opera, e che abbia composto tre opere in una come per contenerlo: una filosofica, una teatrale, una cinematografica – una esistenzialista, una eschilea, una ejzensteiniana. Che abbia scritto, in un mondo in cui nulla era più e tutto diveniva, un libro profondamente sibillino ed eternamente elusivo – un piccolo I Ching dell’Occidente da aprire a caso per trarre consiglio dalle sue sentenze oracolari, l’ultimo testo sapienziale dell’Uomo prima che muoia accanto al Dio che ha ucciso – un libro vasto e semovente – una moderna bocca delle verità, un grande e ingannevole teatro di ombre cinesi – un libro caleidoscopico, in cui i pezzi di un mondo in frantumi si compongono e ricompongono per dare una risposta sempre diversa, a seconda di chi la chiede, su come si possa sopporta- re la condizione umana – e se la si possa sopportare.

André Malraux

Di André Malraux nel catalogo Bompiani