Giunti Editore

— Parola al traduttore

Le ragazze di Rumer Godden

Le ragazze di Rumer Godden

C’è qualcosa che accomuna le bambine di Rumer Godden, una delle più famose scrittrici inglesi del XX secolo benché poco nota da noi, nata nel Sussex nel 1907 ma cresciuta in India, fra gli ultimi resti dell’impero coloniale britannico, amando quel luogo a tal punto da tornarvi da adulta, separata dal marito, vivere per anni in una casa galleggiante con le sue figlie e dirigere con la sorella Nancy una scuola di ballo per ragazzine indiane e inglesi fino a un dramma misterioso come quel paese impenetrabile: un tentativo di avvelenamento, forse, da parte di una domestica indiana. Solo allora Godden tornò in Inghilterra per sempre, ma quei luoghi, quei paesaggi, il loro fascino ambiguo, il loro mistero imprendibile, l’irrevocabile estraneità che provava dappertutto, inglese di fronte agli indiani, poi mai del tutto veramente inglese, le rimasero nel sangue e nella scrittura, e rimasero nei suoi personaggi.

La ragazzina Harriet del Fiume, nata e cresciuta in India, che scopre il turbamento della sessualità e del passaggio all’età adulta attraverso la sorella maggiore e la violenza inspiegabile della natura attraverso un serpente e un fratello minore dolce ed enigmatico, e che precipita con rabbia verso l’adolescenza, verso la scoperta della scrittura, verso i cambiamenti irrimediabili che stanno arrivando. La piccola Nona nel romanzo per bambini Bambole giapponesi, uno dei venticinque romanzi che Rumer Godden scrisse per ragazzi oltre a quelli per adulti (tra i quali i più celebri Il fiume, appunto, e Narciso nero, entrambi tradotti in film da registi enormi come Jean Renoir e Powell e Pressburger), la piccola Nona giunta dall’India, estirpata, sradicata, sola anche se in una famiglia tutto sommato amabile, che trova il suo posto dopo l’arrivo di due bambole dal Giappone e l’incontro con un vecchio libraio; lo trova, o, per meglio dire, lo costruisce letteralmente. La diddakoi Kizzy, forse sette anni, mezza irlandese mezza gitana, nel romanzo La bambina selvaggia, che dopo la morte della nonna deve abbandonare il mondo libero, selvatico e rude che conosce e ama e sottomettersi alle regole del mondo “civilizzato”, per poi trovare una speranza in una donna sola che a quel mondo, è vero, appartiene, ma è in grado di darle uno spazio autentico. C’è qualcosa che le accomuna, ed è essere diverse. Rumer Godden sa parlare come pochi altri di cosa significa essere diverso quando sei piccolo, disarmato, arrabbiato e smarrito: è una grande scrittrice per l’infanzia perché sa guardare e dire con gli occhi di un bambino, con la sua voce vera, perché sa descrivere le sue sensazioni più indicibili, la sua furia, la sua tenerezza, la sua solitudine, la sua disperazione. Perché la diversità in Godden, soprattutto se riguarda i bambini, non è mai facile, estetizzante o addomesticabile, ma qualcosa che è di per sé, che va conosciuto in quanto tale, e che si può certo accostare al resto, ma conservando sempre la sua magica separatezza.

Tutto questo vale anche per la Lovejoy di Nella città una rosa. Lovejoy dal nome impossibile, figlia di una madre cantante sventurata che l’ha lasciata a pensione da Mrs Combie, la moglie di un ristoratore, sull’orlo del fallimento perché sogna troppo in grande; una madre che a volte torna per poi subito sparire. Lovejoy, che ha dodici anni e una furia in corpo che va dai piedi ai capelli e vive in Catford Street, una via popolare di Londra ancora crivellata dai buchi dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, popolata di personaggi vitali e brutali, sempre osservati dalla finestra di una bella casa su una piazza borghese dalla vecchia Olivia, che ha sempre avuto paura di tutto ma ama guardare la città e il suo formicolare e chiedersi cosa c’è oltre quello che riesce a vedere all’orizzonte, e ama osservare i bambini sporchi e cenciosi che sua sorella Angela, grande organizzatrice di eventi benefici, disprezza o vuole “sistemare”. La sognante, inerte Olivia e Lovejoy, la più vitale e brutale degli abitanti di Catford Street, un giorno si incontreranno: ma nel frattempo a Lovejoy, nella sua straziante, feroce solitudine, accade qualcosa. Raccoglie o per meglio dire ruba una bustina di semi di fiordaliso. E quella bustina apre, come in un gioco di scatole cinesi, tutta una serie di nuovi mondi oltre a quello spaventoso in cui vive Lovejoy nella sua testa, diventa un segreto e quindi una meraviglia, una possibilità, una speranza di ricostruzione in un paesaggio distrutto. Un desiderio da perseguire a tutti i costi, anche quando il primo tentativo viene schiacciato da un gruppo di bulli di quartiere, un desiderio che nasconde il dolore e la bruttezza e che finisce per coinvolgere anche Tip, il capo di quella banda che scopre improvvisamente in Lovejoy qualcosa che lui stesso non riesce a capire. E forse nemmeno lei: cos’è quella rabbiosa, paziente, amorosa ostinazione? Perché fare un giardino in mezzo alle rovine?

Tutto forse potrebbe di nuovo infrangersi, forse venire di nuovo sommerso, soprattutto quando Lovejoy comincia a spingersi troppo oltre: ma ciò che conta è quell’ostinazione, l’ostinazione di inseguire l’inutile, il bello, nel nulla che li circonda, nel vuoto che la guerra ha lasciato nella città e negli umani. Questo libro è un capolavoro di poesia e rabbia, popolato di personaggi indimenticabili, e su tutti troneggia l’outsider totale Lovejoy, sempre ben vestita perché così le ha insegnato la madre, gentile e servizievole con chi la ospita ma nel mondo ladra, bugiarda e opportunista, disperatamente infelice ma dura come la pietra di un colonnato in rovina, con un nome stupido ma una dolcezza reale e segreta nascosta sotto tutti quegli strati di collera, una dolcezza che qualcuno è in grado di vedere; Lovejoy, senzadio sempre in rivolta ma splendente come il suo progetto. Perché questa è la seconda cosa che accomuna le bambine di Godden, compresa Lovejoy, protagonista del suo capolavoro per l’infanzia, amatissimo da Jacqueline Wilson e da altri grandi scrittori per ragazzi. Non solo la solitudine, non solo la diversità: ma anche l’incontro con qualcuno che possa capire e la ricostruzione di qualcosa per sé.

Ho tradotto questo libro lo scorso inverno, prima di sapere che cosa sarebbe accaduto di lì a poche settimane. Nel tempo incerto che viviamo e che ci aspetta, Nella città una rosa sembra arrivare da un lontano passato (per caso, per fantastico accidente) come un dono di fiducia per il futuro. Del resto, i grandi libri sono sempre al presente.

 

Marta Barone

Rumer Godden