“Lo ricordo (io che non ho alcun diritto di usare questo verbo, solo un uomo al mondo l’aveva ed è morto) con un’oscura passiflora in mano, la vedeva come nessuno l’aveva mai vista, anche se l’avesse osservata dal crepuscolo del mattino a quello della sera per una vita intera.”
Che si tratti della portentosa memoria del Funes di Borges o delle evanescenti ombre giapponesi di Hearn, i racconti sono distillati di vita e di parole che possono togliere il fiato con incipit e lessico folgoranti. Tre pagine o trenta poco importa, un racconto è narrativa portata all’estremo delle sue possibilità: creare mondi, o meglio farli intravedere quanto basta da rapire chi legge e fargli desiderare di più.
Due voci delicate e pure potentissime incarnano queste doti: Flannery O’Connor e Katherine Anne Porter. Nella prima si visitano anime come stanze di appartamenti nascosti nel cuore di una grande città. Nella seconda l’uomo è materico e scomposto come uno specchio incrinato, si riflette ma non si riconosce. Le raccolte complete dei loro racconti non sentono il peso del tempo, ci arrivano limpide nella prosa e nelle storie che raccontano. Lo stesso vale per Kurt Vonnegut, di cui in autunno arriverà l’antologia completa della prosa breve.
Se il diavolo è nei dettagli, un buon racconto è quanto di più perverso si possa leggere.