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— Parola all'editore

La fiamma di Leonard Cohen

La fiamma di Leonard Cohen

– Citi tre cose che non smettono mai di darle piacere.

– Il bel tempo, il corpo di una donna e la luna.

Intervista di Kristine McKenna a Leonard Cohen, 1988

“Siamo molto fortunati a vivere nella stessa epoca di Leonard Cohen,” chiosò Lou Reed nel 2008 introducendo quel grande nella Rock & Roll Hall Of Fame. Parlava a nome della sua generazione e non solo, anche di altre che nel tempo sono state rapite dai versi e dalle canzoni di un viaggiatore solitario arrivato per caso in una terra che non conosceva e a cui probabilmente neanche ambiva. Fu colpa di Bob Dylan se ciò accadde, quel Dylan che andava insegnando ai ragazzi degli anni '60 che la poesia poteva essere musicata, anzi, doveva esserlo per navigare meglio i tempi, in forma di lamento rimembranza invettiva abbandono ribellione – come la mente dettava.

A quell'epoca Cohen aveva già trent'anni e non poteva più appuntarsi la medaglia di “promessa della letteratura canadese” che pure stava così bene all'occhiello dei suoi maglioni dolcevita (i doppiopetto sarebbero arrivati più avanti). Il tempo in effetti era sul punto di scadere. La promessa era diventata realtà, si erano succeduti  pubblicazioni e riconoscimenti, ma era chiaro che non c'era alcuna possibilità di vivere di quello e minuscola la cerchia di coloro che conoscevano il poeta e lo sostenevano. Dylan appunto gli diede lo spunto. Leonard provò a mettere i suoi versi in canzone, usando il poco country folk che sapeva e le onde mediterranee della Grecia frequentata e amata, e subito cominciò a dubitare di sé - lo avrebbe fatto per tutta la vita. Chi ascoltò quei primi tentativi (c'era Suzanne nel mazzo) ebbe tutt'altra idea, e Judy Collins fu la prima a far conoscere quel nome interpretando due suoi brani in un LP del 1966 e raccogliendo ovazioni. Cohen stentava a capacitarsi; e ancor più quando qualche mese dopo sempre lei, Judy “blue eyes”, lo spinse letteralmente su un palco con una chitarra alla fine di uno show. Leonard non ci si vedeva proprio; e l'idea che qualcuno si incantasse per quella sua voce di liquerizia che lui trovava rigida e sgraziata, gli pareva incomprensibile.

Se c'è un filo rosso nella vicenda coheniana (ce n'è più d'uno, in realtà) è questo senso di inadeguatezza, che per modestia e interiore rovello afflliggerà l'artista nel tempo: cantante a suo dire inadeguato, padre e sposo non all'altezza, traditore della religione degli avi, uomo assetato di spiritualità che un istinto impetuoso per la carnalità e il sesso zavorra fino a mortificarlo.  “Alla fine ho capito/ di non avere il minimo talento/ per le Questioni Spirituali”, scrive con rammarico misto a sollievo quando se ne va dal monastero zen dove ha passato buona parte dei '90. “Non sono portato per quella vita. A me sembra di avere talento per una sola cosa: con tanto impegno, riesco a creare rime con le parole.”

Detta così... Ma l'understatement è un altro tratto caratteristico. Sembra che canzoni come Suzanne, Bird On A Wire, Sisters Of Mercy, Nancy, The Famous Blue Raincoat, Chelsea Hotel #2, e Dio solo sa quanto potremmo seguitare, sembra che siano curiosi accidenti del caso e non frutti accanitamente coltivati da un giardiniere che non smetteva mai di seminare, innestare, potare note e parole, “every day, all day, and every night, all night”, come lo hanno ricordato gli amici al momento della dipartita. Quei frutti erano un dono vivo, erano tizzoni ardenti, fiamme di un lucido guardare le cose che hanno illuminato tante vite e confortato altrettanti smarrimenti. Non per niente l'ultima raccolta di poesie appena uscita, “l'ultima offerta al pubblico”, come ha scritto bene il figlio Adam, si chiama La fiamma, ricordando quante volte il fuoco ritorna nelle pagine di Cohen, nelle sue canzoni, e nell'idea che ci siamo fatti di lui. Leonard aveva una fiamma dentro, che lo teneva vivo e lo inquietava, che lo faceva fremere ma ne rischiarava anche i pensieri. Una fiammella ha alimentato lungo l'intera vita il suo alambicco, dalle cui serpentine sempre versi nitidi, precisi, essenziali – una semplicità  da non confondere mai con facilità. Negli anni maturi quella fiamma è servita da lanterna, per scrutare il buio pesto della nostra epoca (“il prossimo giro è del demonio”, cantava profeticamente The Future) così come la zona oscura del fine vita (le ultime canzoni, quelle di You Want It Darker, compongono uno dei quadri più spietatamente sinceri che un musicista abbia mai concesso al pubblico).

Abbiamo cominciato con Dylan, possiamo chiudere con lui, accertando una profonda differenza con il nostro uomo: che non si spiega per enigmi, non ha mai eluso le domande scomode, non ha mai cercato di ipnotizzare. Leonard Cohen era capace di confessare candidamente che “il più delle volte, non so neppure cosa sto facendo” e di chiedere di non essere chiamato poeta, “semmai pseudo-poeta, come diceva Gainsbourg”, meglio ancora “stilista”. “Voglio essere considerato uno che ha stile, proprio come il progettista di un velivolo o di un'automobile si augura che il suo macchinario si muova a dovere”. Le canzoni lo affascinavano perché da sempre raccontano storie, “un buon cantastorie parla di noi, racconta la nostra storia e così facendo riesce a mettere i nostri squallidi problemi in una nuova luce”; e queste storie “non importa che abbiamo un inizio, una metà, una fine, l'importante è ascoltare la narrazione”. Il più delle volte le abita l'amore, e a sentire lo pseudo-poeta tutto ciò è inevitabile; “perché il cuore è un elaborato shib kebab nel petto di ognuno, impossibile da ammorbidire o da controllare. Da qualche parte, dentro di noi, viviamo vite ricche di passioni e di emozioni, che in fondo sono per noi la cosa più importante. Nessuno si azzarda a fare sciocchezze con la musica, perché la musica è destinata al cuore”.

 

Riccardo Bertoncelli

Leonard Cohen