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— Parola all'autore

Gesualdo Bufalino nelle parole di Nunzio Zago

Gesualdo Bufalino nelle parole di Nunzio Zago

In occasione del centenario della nascita di Gesualdo Bufalino abbiamo chiesto a Nunzio Zago, attuale direttore scientifico della Fondazione Bufalino e autore, con Bufalino stesso, di Cento Sicilie, di raccontarci il grande scrittore comisano.


Gesualdo Bufalino (Comiso,1920-1996), che condusse, nell’angolo più meridionale della Sicilia, un’umbratile esistenza d’insegnante compensata da infinite curiosità intellettuali (letterarie, musicali, artistiche, cinematografiche, ecc.), fu scrittore segreto fino ai sessant’anni, quando, un po’ per caso, si rivelò al grande pubblico con un romanzo, Diceria dell’untore (1981), in cui rievocava, fra “retorica” e “pietà”, debitamente trasfigurata, una traumatica esperienza sanatoriale da lui patita in gioventù, all’indomani della guerra e il sentimento inguaribile della vita che ne era nato, come d’una partita truccata, tassata irreparabilmente dallo scacco e però ricca d’inesauribili seduzioni. (In quasi tutti i testi di Bufalino sarà costante la metafora degli scacchi, fino al romanzo al quale stava lavorando quando morì in séguito a un incidente d’auto, Shah Mat. L’ultima partita di Capablanca, rimasto incompiuto fra le sue carte e uscito a mia cura nel 2006, in un’edizione non venale Bompiani/Fondazione Bufalino).

A Diceria dell’untore, che vinse quell’anno il premio Campiello, seguì fortunatamente un quindicennio di frenetica attività produttiva per cui, oggi, si può guardare all’autore come a una delle figure di spicco del secondo Novecento: si tratta di altri romanzi (Argo il cieco ovvero I sogni della memoria, 1984; Le menzogne della notte, 1988, premio Strega; Qui pro quo, 1991; Calende greche, 1992; Il Guerrin Meschino, 1993; Tommaso e il fotografo cieco ovvero il Patatràc, 1996), di prose d’arte e di memoria (Museo d’ombre, 1982, 1993), di poesie (L’amaro miele, 1982, 1989, 1996), di racconti (L’uomo invaso e altre invenzioni, 1986), di saggi ed elzeviri (Cere perse, 1985; La luce e il lutto, 1988; Saldi d’autunno, 1990; Il fiele ibleo, 1995), di aforismi (Il malpensante. Lunario dell’anno che fu, 1987; Bluff di parole, 1994), di traduzioni (Le controrime di Toulet, I fiori del male e Per Poe di Baudelaire, una scelta delle Greguerías di Ramón Gómez de la Serna intitolata Sghiribizzi, ecc.) e antologie (Dizionario dei personaggi di romanzo, 1982; Il matrimonio illustrato, 1989, con la moglie Giovanna Leggio; Cento Sicilie, 1993, con Nunzio Zago).

Nell’orizzonte di Bufalino, il cui discorso ha persino venature da Ecclesiaste (tutto è vanità…) e gnostiche (un dio minore, demiurgo o demone, è all’origine del mondo e dei suoi mali), con accenti di leopardiana protesta, ma più ironici e introversi, con un’antiteodicea più moderna e problematica, un posto centrale occupa la memoria, che si oppone all’universale precarietà, al tempo che tutto muta e cancella. E in parallelo la letteratura, che s’ispira alla memoria e alla quale è affidato il compito di “popolare il deserto”, di certificare chi siamo o siamo stati, di restituire alle cose, proustianamente, una fittizia ma vivida “durata”. Anche la tematica siciliana è letta da Bufalino in quest’ottica mitopoietica, ma non consolatoria: il carattere “plurale” del paesaggio (“le Sicilie sono tante, non finirò di contarle…”), i contrasti e gli eccessi insanabili sia della natura che della società, la ‘mischia di luce e di lutto”, insomma, che è il principale contrassegno, lo stigma-stemma, delle manifestazioni isolane, hanno trovato in lui un finissimo interprete, capace di arricchire ulteriormente la geniale indagine dei Verga, De Roberto, Pirandello, Brancati, Lampedusa, Sciascia

Il maggior punto di forza, probabilmente, e la peculiarità più intrinseca e innovativa della ricerca letteraria di Bufalino vanno individuati in una lucidissima percezione del destino attuale dello scrittore, costretto a “starsene in bilico fra innocenza e malizia, certezza e ipotesi, natura e cultura”, nostalgico delle “grandi cattedrali”, non soltanto narrative, del passato, “ma inabile a sortire dalla propria cappella di manteche, falsetti, citazioni, ibridazioni, sposalizi inattesi di linguaggi e personaggi lontani” (per citare un suo intervento “teorico” del 1984 sul romanzo, Morire a Roncisvalle). In lui, cioè, la nostalgia del “grande stile” convive con una pungente consapevolezza dell’impraticabilità ingenua di esso, il che lo colloca in un’ardua zona di confine, su un difficile crinale, tra l’eredità primo-novecentesca, High Modern e la linea del cosiddetto Post Modern. Da qui il carattere iperletterario della pagina bufaliniana, il fittissimo e vertiginoso dialogo intertestuale che vi s’intesse, il gusto squisito dell’arabesco, del pastiche, della parodia di forme e generi canonici (il romanzo storico in Le menzogne della notte, il romanzo poliziesco in Qui pro quo, l’autobiografia in Calende greche, ecc.), il fatto che essa metta a nudo, di continuo, dietro l’elegante fraseggio musicale, ritmico, le proprie tecniche di costruzione e di funzionamento, dissipando l’illusione realistica tradizionale e alludendo, viceversa, a una richiesta di senso, a un dubbio insieme epistemologico, metafisico, pensosamente esistenziale.

Senza rinunciare – ed è la distanza più rilevante rispetto ai moduli correnti, già usurati, del “postmoderno” – alla riconoscibilità di quello che mi piace chiamare “tono Bufalino”, sontuoso, non privo di una tournure classica, ma anche di scarti alto/basso e di spericolatezze avanguardistiche. E sempre improntato, comunque, a un’idea antica, “artigianale”, umanistica, della letteratura, quasi un estremo baluardo, benché malfermo e debole, eretto sul terreno sdrucciolevole e infido dei tempi moderni. Un’idea portatrice, in qualche modo, d’un’implicazione “civile”, “politica”, almeno nei limiti della “politicità” che per Bufalino, il quale in un aforisma sostenne argutamente di aver imparato a non rubare ascoltando Mozart, era compatibile, come accennavo, col ruolo odierno dello scrittore: “Simile a un colombo viaggiatore – recita un altro suo aforisma −, il poeta porta sotto l’ala un messaggio che ignora.”

Nunzio Zago, novembre 2020

Gesualdo Bufalino

Nunzio Zago