«Felici però no. Perché il confronto è inevitabile, quotidiano, sferzante; e se in più mamma e papà sono troppo felici che cosa può avanzare per tutti gli altri? Le briciole, e un perenne desiderio di emulazione che la vita provvede a reprimere.»
Chissà che cosa avrà provato Claire Lombardo quando nella recensione del Guardian al suo primo romanzo è stata definita l’erede letteraria di Jonathan Franzen e Anne Tyler. Brivido. Pudore. Inevitabile compiacimento. Ed è vero che Mai stati così felici sta bene sullo scaffale accanto alle storie piccole e immense di Anne Tyler, che scrive sempre degli stessi luoghi, nello stesso raggio, un po’, volendo, come Elizabeth Strout con la sua Olive, però con un’insistenza più spiccata sulle solitudini rumorose. (Alla fine ogni scrittore è un mondo a sé, e fare paragoni è un esercizio divertente quanto inutile: ma tanto per divertirci inutilmente citiamo anche Ann Patchett, o Barbara Kingsolver, entrambe abilissime ritrattiste di donne memorabili.)
I personaggi di Claire Lombardo invece non sono mai soli: anzi, la mancanza di isolamento, di silenzio, di una dimensione intima è uno dei loro problemi. Succede nelle famiglie numerose, e i Sorenson, lui medico lei impaziente mamma a casa e poi signora di un negozio di ferramenta, di figli ne hanno quattro, quattro femmine, quattro perfette foglioline di gingko, uguali e diverse, tutte belle, tutte sveglie. Felici però no. Perché il confronto è inevitabile, quotidiano, sferzante; e se in più mamma e papà sono troppo felici che cosa può avanzare per tutti gli altri? Le briciole, e un perenne desiderio di emulazione che la vita provvede a reprimere.
Lo sa bene Grace, la figlia più piccola, detta Ochina, schiacciata dai sensi di colpa per i fallimenti scolastici che non rivela a nessuno, e dunque bugiarda seriale a distanza; lo sa Violet, madre ricca dei sobborghi che tra SUV, tutine colorate, lezioni di yoga e festicciole porta ancora con sé i fantasmi di un baby blues che viene da lontano; lo sa Wendy, cinica primogenita vedova di un amatissimo marito, lei che ce l’aveva, la felicità, e l’ha perduta; e lo sa Liza, incinta per caso di un compagno con cui non ha più nulla in comune.
Ci sono molti bambini in questo romanzo: le quattro sorelle Sorenson prima di tutto, spiate, osservate, ricordate, rievocate nella loro infanzia in una di quelle case da serie americana, mai in ordine, un po’ scricchiolante, bellissima, completa di giardino e cane, e nelle tappe delle loro adolescenze pugnaci, perché quando mamma e papà ti vogliono troppo bene e sono troppo belli e bravi e buoni devi per forza dar loro battaglia, salvo scoprire che la perfezione non è di questo mondo, nemmeno del loro. E poi i figli delle figlie, avuti e perduti, respinti e ritrovati. (Su tutti Jonah, l’adolescente ombroso che è il motore inconsapevole del romanzo: divertente, amaro, adorabile.)
C’è la periferia che si fa centro del mondo, tutta rose rampicanti e portici col dondolo; c’è la pazienza del lavoro, ma anche la prigionia dei rituali; ci sono gelosie e non detti, cose viste e custodite come segreti, cose immaginate, cose pericolose, cose mai successe e ingigantite; c’è l’impasto della vita come viene. È una lettura lunga e lenta e veloce, vorresti saperne di più e per fortuna quasi settecento pagine sono tante, ce n’è ancora, che bello, ancora un po’, ci sono ancora mani e occhi e voci e alberi e tempeste e cani.