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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Tommaso Pincio

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Tommaso Pincio

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Tommaso Pincio: scrittore e traduttore, dal 1999, anno del suo esordio con M., ha pubblicato tra gli altri Un amore dell'altro mondoLa ragazza che non era leiCinacittà, Lo spazio sfinitoHotel a zero stelle, Pulp Roma, Panorama e Il dono di saper vivere. Come traduttore ha collaborato anche con Minimum Fax, Sur, DeA Planeta e Fanucci. Per Bompiani ha tradotto Fato e furia e Florida di Lauren Groff, Primo amore di Gwendoline Riley, Al largo di Wyl Menmuir e Stagno di Claire-Louise Bennett.

 

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Nello stesso periodo in cui ho deciso che volevo diventare scrittore. Non so se quanto la si possa definire una vera decisione, però. Traducevo per mio conto, per imparare a scrivere; mi sembrava un buon modo per carpire i segreti dei libri che più mi piacevano. Era un’attività privata, una sorta di palestra personale e tale è rimasta finché un editor che sapeva di questi miei esercizi letterari mi ha proposto di tradurre sul serio. Per un caso del destino, il romanzo d’esordio è uscito a distanza di qualche giorno dalla mia prima traduzione professionale.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Arc d’X di Steve Erickson.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Ho sì un’idea che è anche un desiderio, ma forse è anche il caso che lo tenga per me fino a quando non proverò a proporlo a un editore. Ve ne dico un altro, però; uno decisamente folle che nessuno accetterebbe: Un dizionario della lingua inglese di Samuel Johnson.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Al giorno d’oggi? Probabilmente due: Google Image e Google Maps. Hai la possibilità di vedere le cose e i posti di cui parla uno scrittore, di farti idee molto concrete in un tempo molto breve. I traduttori dell’era pre-Google erano degli eroi. Non so come facessero. Anzi no. In realtà, lo so, perché quando ho iniziato a tradurre il web era ancora in fase molto primitiva e di fatto inutilizzabile per il nostro lavoro. Si faceva ugualmente, faticando un po’ di più.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

La traduzione è in sostanza una forma di lettura e comporta fatalmente strascichi, influenze di vario genere. Essendo anche una forma di convivenza non molto diversa da quella matrimoniale, traducendo si impara che leggere significa anche accettare il libro come un’alterità, un qualcosa che bisogna imparare ad amare sia per i pregi che i per i difetti, e non per come vorremmo che fosse.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce?

Sul piano personale, nessuno. Preferisco un certo distacco. Pongo quesiti all’autore soltanto raramente e quasi sempre attraverso l’editore. Sul piano letterario, invece, profondissimo. Mi informo. Leggo interviste e recensioni. Se esistono video in cui l’autore legge un suo testo o tiene una conferenza, li guardo più volte. Spio l’autore da lontano, pianificando di prenderne il posto, di assumerne le sembianze. Per me, infatti, il mestiere più simile alla traduzione è quello dell’attore. Le qualità con cui si misura una buona traduzione sono le stesse che determinano una buona interpretazione teatrale o cinematografica, a cominciare dalla principale, la più difficile da raggiungere: la naturalezza.

E con gli editori per cui traduce?

Di complicità e fiducia. Più che del dialogo con l’autore, mi interessa quello con l’editore. Ma è lo stesso anche quando non traduco, da semplice lettore cioè. Non ho alcun interesse a stabilire un contatto personale con gli scrittori. E più un libro mi piace, meno voglio conoscere chi lo ha scritto o quanto meno parlare con lui del libro che ha scritto. Gli scrittori andrebbero uccisi nel momento in cui licenziano il testo per le stampe. Lo dico in senso figurato ovviamente, essendo anch’io uno scrittore. Amo invece discutere di libri con gli altri, con chi li ha a cuore e se ne prende cura ed è appunto per questo che preferisco il dialogo con l’editore.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

La questione della fiducia cui accennavo me ne suggerisce uno. Se il traduttore è una sorta di attore, l’editore è l’equivalente di un regista; deve essere bravo a intravedere in un traduttore la voce adatta per un certo libro. Per fare un esempio concreto: fosse dipeso da me, non avrei mai pensato a Gwendoline Riley o Claire-Louise Bennett come scrittrici adatte alla mia sensibilità, e invece aveva ragione l’editore, in questo caso Bompiani, che me le ha affidate perché pochissime altre volte mi sono calato nella parte con pari intensità. Il romanzo di Riley, First Love, mi è entrato talmente dentro che una notte, in sogno, ho creduto di scoprire, senza capacitarmene, che in realtà si intitolava Fist Love. Mi sono svegliato stordito, quasi nel panico. Lavoravo a un mese a quel romanzo e neanche mi ero accorto di avere letto male il titolo? Ripensandoci, più che un sogno, è stato un incubo e potrà dunque sembrare strano che lo consideri un bel ricordo. E tuttavia per me lo è; dimostra quanto fossi calato nella parte.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Mi tocca ripetermi o quasi. Vita di Samuel Johnson di James Boswell.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Dipende cosa si intende per mondo editoriale. La considerazione degli addetti ai lavori, dunque di editori e di chi a vario titolo partecipa alla creazione di un libro, è benventua e credo sia molto cresciuta rispetto al passato. Se invece parliamo di una maggiore esposizione del traduttore, sono più dubbioso. Più visibilità significa anche più superficialità da parte di chi ti osserva e giudica. Quel tipo di considerazione non la cerco; un nome in corpo 14 sul frontespizio mi basta e avanza. Preferisco che l’interesse per i traduttori – per il mio lavoro almeno – sia di pochi e che sia cercato e non sollecitato, che non sia cioè un vezzo o una moda o una sorta di buonismo letterario. Credo che una giusta dose di oscurità giovi a questo mestiere, ma lo farei pure nel buio più pesto, nel totale anonimato.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Ho studiato per diventare pittore ma ho finito per fare il mercante d’arte per quasi vent’anni: la mia formazione è questa. Non ho nessun titolo per dare consigli in un campo dove sono capitato quasi per caso e ho solo da imparare. Posso soltanto dire quali regole considero la mia stella polare:

  1. non aggiungere nulla, 
  2. non togliere nulla,
  3. non interpretare.

Sono le tre regole cui dovevano attenersi i trascrittori dei testi sacri nelle antiche comunità ebraiche. I trascrittori erano l’unica casta esclusa a prescindere dal “mondo nuovo”, dal paradiso per così dire, e questo perché si dava per scontato che nel trascrivere i testi non avrebbero potuto evitare di trasgredire le tre regole base. Ritengo che lo stesso valga moltiplicato per dieci o cento volte per i traduttori. Non aggiungere, non togliere, non interpretare: è impossibile rispettare fino in fondo questi princìpi nel trasporre un testo da una lingua a un’altra. Eppure lo spirito dovrebbe essere questo. Bisogna cioè essere consapevoli che, in quanto traduttori, si sarà sempre nel torto, ma proprio per questo è essenziale ridurre l’errore alla sua essenza, sbagliare con metodo e secondo coscienza. Se mi passate una battuta: sbagliare è umano, tradurre è diabolico.