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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Pino Cacucci

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Pino Cacucci

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Pino Cacucci: è scrittore, traduttore e sceneggiatore. Tra i suoi libri ricordiamo Escondido, San Isidro Futból, La polvere del Messico, Demasiado corazón, Gracias México, ¡Viva la vida!, Nessuno può portarti un fiore. Ha tradotto in italiano molti autori spagnoli e latinoamericani, tra cui Francisco Coloane, Enrique Vila-Matas, Ricardo Piglia, David Trueba, Gabriel Trujillo Muñoz, Manuel Rivas. Nel 2017 ha vinto il Premio Italia México, il riconoscimento a Città del Messico “a chi contribuisce in modo significativo a rafforzare i legami tra i due paesi”. Per Bompiani ha tradotto Stagione di uragani di Fernanda Melchor e Le mutazioni di Jorge Comensal.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Una scelta che è avvenuta, letteralmente, “strada facendo”: nei primi anni ottanta vivevo più in Messico che in Italia, scrivevo ma ancora nessuno mi pubblicava (fino al 1988, quando è uscito il mio primo libro), e intanto raccoglievo libri di autori latinoamericani da proporre a piccoli editori italiani, e poi, strada facendo, mi sono anche proposto di tradurli.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Quando vivevo in Messico, da lì andavo spesso in Nicaragua, nel pieno della rivoluzione sandinista e della guerra dei mercenari contras, e nell’87 ho contribuito a portare una serie di editori italiani alla prima fiera del libro di Managua (impresa encomiabile nonché avventurosa da parte degli organizzatori, in un paese devastato e in piena guerra). Nel frattempo facevo parte di una cooperativa editrice di Bologna, Agalev, per la quale tradussi un grande romanzo della letteratura nicaraguense, Trágame tierra, di Lizandro Chávez Álfaro (che presentai con l’autore proprio a Managua in quell’occasione; purtroppo Lizandro è morto nel 2006). E più o meno contemporaneamente, traducevo sempre per Agalev il primo libro uscito in Italia di Paco Ignacio Taibo II, Eroi convocati.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Quello che la sorte mi manderà: c’è questa prima fase in cui ricevo un libro da tradurre e inizio ad assaporarlo con la curiosità di sapere in compagnia di chi trascorrerò i prossimi mesi…

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Saper scrivere nella propria lingua prima ancora di conoscere bene la lingua da cui si traduce. Essere narratore prima ancora che traduttore. Fermo restando, è chiaro, che occorre rinunciare al proprio “stile” per interpretare e assumere lo stile dell’altro.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Credo che solo chi traduce un libro riesca a penetrare talmente a fondo nel testo – arrivando a intuire persino il motivo per cui l’autore sceglie una certa parola o un certo modo di costruire una frase – da esserne una sorta di lettore “assoluto”, cioè. Neppure rileggendo più volte un libro e studiandolo in ogni sua parte si può raggiungere quella rara forma di “intimità” che si instaura tra testo e traduttore.

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Con tutti e tutte (sono ormai svariate decine, visto che ho superato il centinaio di titoli tradotti) ho rapporti di amicizia, molti li conosco di persona ed è sempre una festa ritrovarci con “pretesti” di fiere del libro o festival letterari, o in alcuni casi sono amici fraterni che vado a trovare o vengono a trovarmi indipendentemente dai libri da tradurre. Anche con quelli che ancora non conosco di persona, dopo aver avviato il rapporto epistolare per chiarire qualsiasi dubbio sul lavoro da fare, si è sempre instaurata una relazione amichevole che ci vede spesso scambiare mail anche dopo il “lavoro” ultimato.

E con gli editori per cui traduce?

Ho la fortuna di aver sempre avuto a che fare con persone, nelle case editrici, disposte a instaurare rapporti confidenziali e non di semplice “incarico da svolgere”, quindi, posso dire di avere ottimi rapporti anche con loro.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Difficile rispondere, perché sono davvero tanti, e tutti legati alle amicizie che si sono create grazie alle traduzioni. Potrei citare alcune delle più grandi soddisfazioni, come il premio dell’Instituto Cervantes per aver tradotto l’opera completa di Francisco Coloane, e questo mi ricorda quei tempi ormai lontani, quando non esisteva l’email (a un certo punto esisteva ma Coloane, che viveva tra Santiago e la Terra del Fuoco, alla soglia dei novant’anni non si curava certo di averne una) e con lui scambiavo lettere che ci mettevano due o tre settimane ad arrivargli e altrettante per le sue lettere di risposta…

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Cent’anni di solitudine, ma quando lo lessi, negli anni settanta, ancora non traducevo…

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Annosa questione… Se da un lato ricevo notevoli soddisfazioni dalle persone che lavorano nelle case editrici e che si rendono conto di quanta passione (e ormai posso dirlo: esperienza ultratrentennale) metto in questo lavoro (e da alcuni recensori che si accorgono che esistono i traduttori, quando scrivono di un libro pubblicato), purtroppo in Italia non c’è una cultura di apprezzamento per i traduttori, mentre in altri paesi il nome del traduttore viene messo addirittura in copertina.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Trascorrere periodi più lunghi (e “lenti”) possibile in paesi dove si parla la lingua da cui traduce. Credo aiuti non poco a penetrare sotto la superficie di studi che, per quanto approfonditi, non possono sostituire la conoscenza diretta e quotidiana con la lingua parlata, fonte inesauribile di gerghi e neologismi che continuano ad affascinarmi.