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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Giulia Ansaldo

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Giulia Ansaldo

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Giulia Ansaldo, che ha tradotto per noi La macchina della pace di Özgür Mumcu.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Dopo il mio primo soggiorno in Turchia, avvenuto in una città dove si parlava prevalentemente curdo, dopo un anno trascorso immersa in due lingue totalmente sconosciute, apprese per necessità, ho deciso di studiarle e coniugarle al mio interesse per i libri e la letteratura. C’è stato un momento preciso, mentre cercavo di leggere a un amico, in una lingua comune che non avevamo, Lavorare stanca di Pavese.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Ci sono due libri che considero "il primo libro che ho tradotto". In termini cronologici è Canto di una donna senza permesso, un libro di poesie della poetessa iraniana Granaz Moussavi, cominciato come esercizio e sfociato in una pubblicazione. Il primo libro tradotto consapevolmente, in un’ottica professionale, è Il Mandarino Meraviglioso di Aslı Erdoğan pubblicato da Keller.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Quello che sto traducendo: La risata del barbaro di Sema Kaygusuz, edito da Voland. Ci sono poi ancora moltissimi autori turchi sconosciuti in Italia che mi piacerebbe tradurre, un “classico contemporaneo” come Tahsin Yücel, prima di tutti, o Ayhan Geçgin, autore di un romanzo che a partire da una ricerca individuale racconta di un viaggio nelle periferie fisiche e sociali della Turchia contemporanea, le cronache anatoliche di Yaşar Kemal...

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Sono di quei traduttori che lavorano spesso in movimento e ho cominciato a lavorare nell’era digitale, tecnicamente lo strumento indispensabile per me è una connessione internet e un pc su cui è installato il dizionario analogico Zanichelli. In generale, credo che vivere il paese della lingua che si traduce, per un periodo di tempo almeno, permetta di sciogliere nodi che linguisticamente resterebbero inaccessibili.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Sì. Negativamente perché i libri che leggo in turco sono selezionati quasi esclusivamente in funzione della suscettibilità di essere tradotti. Per fortuna "quasi". Positivamente perché seleziono i libri che leggo in tutte le altre lingue anche in base a chi li ha tradotti e alla casa editrice che li ha pubblicati, il ché garantisce letture di qualità.

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Finora ho tradotto solo autori contemporanei e li ho conosciuti tutti. Entro subito in contatto con loro, soprattutto perché spesso sono io a proporre i libri che traduco, fungendo al tempo stesso da scout e agente letteraria, quindi li contatto a volte anche prima di ottenere la traduzione. In fase di lavoro non tengo alcuna corrispondenza, è un momento in cui ho bisogno di creare il mio esclusivo rapporto con il libro. A traduzione ultimata a volte mi confronto con gli autori. Questo succede spesso a faccia a faccia, come con Özgür Mumcu, e lo scambio che emerge diventa anche un’occasione per gli autori di riflettere sul proprio lavoro da un altro punto di vista.

E con gli editori per cui traduce?

Dopo aver lavorato con un editore cerco di mantenere i contatti e continuo a presentare proposte o a suggerire autori, talvolta si crea un rapporto di fiducia e di collaborazione duraturo, talvolta di amicizia. Con le redazioni ho sempre avuto scambi costruttivi, magari lunghi, ma comprensivi e rispettosi da entrambe le parti.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Quando ho accompagnato il giornalista Can Dündar che ho proposto e tradotto, a Ferrara a ritirare il Premio Politkovskaja al festival di Internazionale.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Dal turco finora ho tradotto tutti i libri che avrei voluto tradurre. Mi sarebbe piaciuto tradurre Il solco di Valérie Manteau, che racconta una Istanbul in parte simile a quella che conosco. Sono grata a L’Orma editore e a Sabina Terziani per averlo fatto.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

No. Se si parla di considerazione in termini di visibilità nel settore c’è senz’altro una maggiore attenzione al lavoro del traduttore, come dimostra anche questa rubrica. Ma l’attività del traduttore spesso non è considerata una professione a tempo pieno; né a livello di consapevolezza generale: «Di lavoro fai solo la traduttrice?» è una domanda comune, né tantomeno, e le cose sono consequenziali, in termini di remunerazione e diritti, e questo vale anche per molte altre figure della filiera editoriale. Associazioni come ACTA e il sindacato Strade stanno facendo molto in questo senso ma manca, a oggi, una politica culturale che vada nella stessa direzione.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

L’aggettivo "giovane" nell’ambiente è spesso utilizzato più in termini professionali che anagrafici, ma è solo un modo per stabilire delle gerarchie. Consiglio di ignorare cose come queste.

Özgür Mumcu