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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Giovanna Granato

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Giovanna Granato

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Giovanna Granato, catanese, si è laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne cum laude all'Università di Torino e in seguito ha frequentato la SETL Scuola Europea di Traduzione Letteraria. La sua opera di traduzione si concentra principalmente su opere di scrittori anglofoni. Ha tradotto buona parte dell'opera di David Foster Wallace. Per Bompiani ha firmato la versione italiana delle poesie di Erica Jong, Il mondo è cominciato con un sì, West di Carys Davies, Lo specchio incrinato di Katherine Anne Porter, Coincidenze, Il fantasma di Mimì e Il sesso è vietato di Tim Parks, Le storie del petalo cremisi, A voce nuda, I gemelli Fahrenheit e I centonovantanove gradini di Michel Faber.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Da ragazzina mi divertivo a tradurre canzoni e poesie, erano il mio viatico per imparare l’inglese. All’università traducevo i sonetti di Shakespeare per vincere la noia di certe lezioni e poi, per non morire d’inedia con una tesi di laurea canonica, ho chiesto e ottenuto, da Franco Marenco, una tesi di traduzione. Ma la traduzione era soltanto il mio passatempo preferito, non ho mai pensato che potesse diventare un mestiere finché non ho vinto una borsa di studio per frequentare quella meravigliosa intuizione di Magda Olivetti che è stata la Scuola Europea di Traduzione Letteraria. E allora il gioco si è fatto serio.     

Qual è stato il primo libro che ha tradotto? 

Le opere complete di Billy the Kid di Michael Ondaatje, uscito da Theoria nel 1995. Un piccolo gioiello.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Un Dickens qualsiasi, mi piacciono tutti. Leggere i libri di Dickens mi dà una gioia pura, elementare, mi fa sentire come una bambina sulle giostre.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

La capacità di essere non uno ma tanti scrittori, e una sete di conoscenza inesauribile.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Mi ha acuito e affinato tutti i sensi, che oramai sono perennemente all’erta. A furia di tradurre diventi un iper-lettore iper-attento e iper-critico.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce?

Con quelli morti un’intimità troppo complicata da spiegare. Con quelli vivi anche, ma in qualche occasione trova riscontro nella realtà, e allora ne nasce una complicità unica.

E con gli editori per cui traduce?

Di grande rispetto reciproco, spesso di amicizia e sempre di solidarietà; non potrebbe essere altrimenti, visto che lavoriamo a una causa comune.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Dopo 25 anni e oltre 60 libri tradotti ce ne sono davvero tanti, tutti idealmente e gelosamente custoditi dentro uno dei più recenti e, forse, dei più frivoli: la pochette da sera che mi ha regalato Edna O’Brien. Le sono venuta in mente mentre la comprava per sé e ha deciso di prenderne due uguali.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Quello che sto traducendo: il diario integrale di Virginia Woolf. Uscirà per Bompiani.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Direi proprio di no. La questione è annosa, ma sono ancora troppo pochi a conoscerla, perciò non mi asterrò nemmeno stavolta dal dire che il nostro mestiere, che pure comincia a godere di maggiore considerazione, rimane pur sempre un lavoro a cottimo senza tutele di nessun tipo: se ci ammaliamo non lavoriamo e non guadagniamo, se andiamo in vacanza non lavoriamo e non guadagniamo, se ci rompiamo una mano non possiamo usare la tastiera e siamo nei guai, se diventiamo troppo vecchi per lavorare non possiamo fare affidamento su una pensione, e via dicendo – l’elenco è davvero troppo lungo e noioso – e questo purtroppo toglie dignità a un lavoro che io reputo tra i più belli al mondo. Perciò tanti affiancano al mestiere di traduttore un lavoro “vero” (a riprova che il nostro non è considerato tale) che dia la garanzia di pagare le bollette. Io finora ho resistito perché mi sembra di non avere mai tempo per nient’altro, ma non è facile.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Leggere leggere leggere. All’inizio tradurre tutto quello che capita, perché a tradurre si impara traducendo. E coltivare il senso critico.