"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Fabrizio Coppola, traduttore per noi Acque morte e Dove c'è fumo di Simon Beckett e di Charcoal Joe di Walter Mosley.
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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?
Non credo che ci sia stato un momento preciso in cui ho preso una decisione simile, piuttosto mi sembra di essere diventato traduttore come risultato di un lungo processo. Fin da piccolo, dalle elementari, giocavo con le parole, le sostituivo, cambiavo parti delle frasi che non mi piacevano – quando parlava la maestra, i miei compagni e poi in seguito anche guardando la televisione. E più tardi ho iniziato a farlo anche in inglese, che ho studiato fin dalla prima elementare. Quando molti anni dopo ho cominciato a interessarmi alla poesia, in particolare agli americani contemporanei (un caposaldo della mia formazione è stato Poesia degli ultimi americani, curato da Fernanda Pivano), il testo a fronte mi ha permesso di compiere un passo in più in quella direzione. Se accanto a questo aggiungiamo la passione per la musica, che poi per molti anni è diventata un lavoro, direi che il quadro è ben delineato: volendo fare il cantautore e amando i grandi songwriter americani non potevo non domandarmi in quale modo sarebbe stato possibile esprimere in italiano versi come: Though you might hear laughing, spinning, swinging madly across the sun / It’s not aimed at anyone / It’s just escaping on the run / And but for the sky there are no fences facing (Dylan, Mr Tambourine). Direi che poi da lì sapevo che a un certo punto avrei iniziato a tradurre. Non è accaduto subito, ma è accaduto, e ne sono molto felice
Qual è stato il primo libro che ha tradotto?
Tutti i lemmi della letteratura nordamericana di un Dizionario della letteratura mondiale edito da Larousse, dal francese. Direi una ventina d’anni fa, almeno. Un’esperienza scioccante e formativa. Uno dei miei primi passi nel mondo editoriale.
E il prossimo che vorrebbe tradurre?
Ah, domanda impossibile. Ci sono così tanti autori che apprezzo e con i quali vorrei confrontarmi che è proprio impossibile dirlo. E poi quello del traduttore è un mestiere strano, si traduce ciò che altri scelgono per te: un giorno arriva una mail o una telefonata e qualcuno ti dice: “Ho pensato di farti tradurre questo.” Quindi, no, non so proprio rispondere.
Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?
Più che a uno strumento penso a una pratica: quella del dubbio. Il dubbio è uno degli strumenti più importanti di un traduttore, accanto ovviamente alla capacità di scioglierlo, di compiere una scelta. Che poi, se vogliamo, tradurre equivale a scegliere, fondamentalmente. Ogni parola, frase, paragrafo non è altro che il risultato di un’infinità di scelte.
Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?
Da molti anni, prima ancora di iniziare a tradurre, faccio il revisore di traduzioni, e prima ancora leggevo le bozze, impaginavo, inserivo correzioni, riscontravo. Quindi questa mia conoscenza del lavoro editoriale a volte mi guasta il piacere della lettura: mi rendo conto spesso che non sto leggendo il testo, lo sto analizzando, sto riflettendo se io avrei tradotto quella frase nello stesso modo e se forse non sarebbe stato meglio spostare quell’aggettivo da un’altra parte. Ma non è sempre così, per fortuna… Va anche detto che quando lavoro molto non riesco a leggere troppo per diletto.
Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?
Dipende da loro, fondamentalmente. Spesso capita di dover chiedere spiegazioni, chiarimenti, e in genere trovo una grande disponibilità, con risposte puntuali, dettagliate e rapide. Talvolta lo scambio è più caloroso, altre più professionale e distaccato. Aggiungo che con tutti gli autori che ho avuto la fortuna di conoscere durante i tour promozionali in Italia è nato un rapporto di amicizia che prosegue al di là degli impegni professionali: durante la nostra clausura di quest’anno sono stati in diversi a scrivermi per sincerarsi delle condizioni mie e della mia famiglia, come è successo a moltissimi miei colleghi. E sono cose che ovviamente fanno piacere.
E con gli editori per cui traduce?
Anche in questo caso, dipende. Con alcuni editor ho costruito una relazione personale, con altri invece ci si limita a un franco scambio di informazioni e proposte via email.
Qual è il ricordo più bello della sua carriera?
Be’, ce ne sono tanti, sono stato fortunato fino a questo momento, ma il più bello è senza dubbio legato a un libro che ho tradotto per Minimum Fax, Solo un fiume a separarci, di Francisco Cantú. Durante una notte insonne mi ero imbattuto in una recensione di quel libro sul sito del NYT, incuriosito avevo scaricato l’eBook e ora del mattino ne avevo letto la metà. Così avevo contattato l’agenzia americana che deteneva i diritti per sapere se fosse stato già venduto in Italia. Mi avevano risposto a strettissimo giro – gli americani sono così – e mi avevano dato i contatti dell’importante agente italiano che lo stava gestendo. Stupito dalla facilità della cosa avevo scritto un post su Facebook per raccontarla senza scendere nei dettagli e due giorni dopo mi aveva contattato Luca Briasco, che non conoscevo, per dirmi che aveva capito di che libro stavo parlando, che lo aveva già adocchiato anche lui e che se fosse riuscito a ottenerne i diritti lo avrebbe fatto tradurre a me. Meno di un anno dopo ero a Roma a fare da interprete alla presentazione. Ecco, diciamo che non va sempre così, ma quando capita… E se posso vorrei aggiungere anche un’altra cosa, che si è rivelata molto significativa nel mio percorso. Una decina d’anni fa Massimo Bubola mi ha chiesto di tradurre in inglese il suo ultimo disco, Ballate di terra e d’acqua, in vista di una distribuzione negli USA. Ora, Bubola (collaboratore storico di De André, per chi non lo sapesse) è un grande autore e i suoi versi erano zeppi di assonanze, rime e rime interne, chiasmi, e qualsiasi altra diavoleria lessicale vi venga in mente. Ricordo che fu un mese di montagne russe, erano una decina di canzoni, sempre con le mani sul pianoforte perché oltre a quanto sopra bisognava ovviamente rispettare anche la melodia e la metrica, oltre a sincerarsi che il risultato fosse poi cantabile. Li ricordo come alcuni dei miei giorni più soddisfacenti dal punto di vista lavorativo, anche se poi purtroppo il progetto non è andato in porto, ma sono stato contentissimo di essermici dedicato.
Quale libro vorrebbe aver tradotto?
Anche qui, troppi, davvero. Ne cito uno: l’autobiografia di Bruce Springsteen, per puro piacere personale.
Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?
Sì e no. Viviamo un momento difficile ma vedo che se da un lato sempre più editori riportano in copertina il nome del traduttore, lo coinvolgono nel lancio dei libri e lo valorizzano, dall’altro ci sono grandi case editrici che non lo citano nemmeno nelle schede di lettura presenti sui loro siti. Io scherzo sempre su questa situazione con colleghe e colleghi, dicendo che alcune redazioni devono essere provviste di una feritoia in cui si infila il testo originale e puf! dopo qualche momento, come per magia, salta fuori il testo tradotto in bella forma. È un atteggiamento per me incomprensibile. Un’altra cosa che va a detrimento del ruolo del traduttore ma anche delle sorti del libro stesso e non fa un buon servizio al lettore è la pratica sempre più diffusa di suddividere la traduzione di un romanzo o di un saggio tra più traduttori, per risparmiare tempo principalmente, per poi affidare il lavoro a un editor che si trova a dover rendere omogeneo un testo scritto da quattro o sei mani… E last but non least, c’è il capitolo dei compensi, che andrebbero regolamentati, fermo restando che a un certo punto bisognerà pur discutere seriamente delle royalties: se un professionista traduce un libro che vende trentamila copie, per dire, non credo che sia giusto non versargli neanche un nichelino oltre al compenso iniziale (ovviamente non deve dipendere dal numero di copie vendute, ma è un esempio che serve a illustrare bene la situazione). Staremo a vedere.
Che consigli darebbe a un giovane traduttore?
Gli direi innanzitutto di non essere impaziente. La traduzione è un lavoro artigianale, servono molti anni per acquisire le diverse competenze necessarie e per riuscire ad applicarle con naturalezza, in modo non schematico ma armonico. Di formarsi una solida cultura generale, di cercare di avere sempre accesso ai diversi registri linguistici – il che oggi è un po’ più complicato dato il generale scadimento del parlato e della lingua anche dei quotidiani, per fare un esempio. Di confrontarsi con il lavoro dei grandi traduttori, che in Italia davvero non mancano, per fortuna, leggendo il testo originale e quello italiano per cercare di comprendere le scelte effettuate. Di non svendersi per la smania di pubblicare subito qualcosa. Di essere sempre curioso e aperto. Di imparare a leggere i testi da tradurre ad alta voce, per assimilarne il ritmo, la musicalità, il suono, l’andatura. E soprattutto di regalarsi un’esistenza piena e ricca: non credo che possa esistere un buon traduttore con una scarsa esperienza del mondo e della vita.