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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Emanuela Bonacorsi

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Emanuela Bonacorsi

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Emanuela Bonacorsi, che ha tradotto per noi Memoria della memoria di Marija Stepanova.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Non l'ho deciso, lo sono diventata traducendo. Ho iniziato all'università studiando la lingua russa e accorgendomi a mano a mano che c'era spazio per lavorare: tanti testi mai tradotti, autori contemporanei da far conoscere o anche classici da ritradurre e rilanciare all'attenzione del pubblico. Poi sono venute le opportunità professionali, ho lavorato in casa editrice occupandomi in particolare di revisione di testi tradotti dal russo al fianco della slavista, traduttrice ed editore Daniela Di Sora. Il contatto diretto con il testo, i traduttori, spesso l'incontro dal vivo con gli autori e poi tutta la macchina di costruzione del libro mi hanno sempre più appassionata e risucchiata indicandomi la strada. Avevo ventisette anni e lavoravo in una redazione dove capitava di incontrare personalità come Viktor Erofeev, Vladimir Sorokin, Michail Šiškin e i maggiori slavisti e traduttori italiani dal russo, ceco, rumeno, bulgaro.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Il romanzo La vita degli insetti di Viktor Pelevin come tesi di laurea. Ricordo che la mia relatrice, Daniela Rizzi, professore ordinario a Ca' Foscari, oltre a propormi la tesi che subito mi conquistò, mi incoraggiò molto a proseguire. Ma il mio primo lavoro pubblicato è Capelvenere di Michail Šiškin.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Più che pensare a cosa vorrei tradurre, posso dire cosa non mi interessa tradurre: non voglio tradurre cattiva letteratura. Mi piacciono gli scrittori coraggiosi che scrivono “in presa diretta” del proprio tempo e lo fanno sovvertendo gli schemi classici, come Marija Stepanova appunto.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Credo l'alchimia di pazienza, tenacia, azzardo, curiosità e feroce autocritica. Poi viene la cassetta degli attrezzi che sostanzialmente è la lingua. O meglio l'organismo vivente della lingua con tutte le sue età, i suoi strati e anche le sue malattie e guarigioni.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Sì, la lettura diventa meno fluida e spontanea, più “professionale”. Scattano automatismi. Il lettore-traduttore sa bene che la definitività del testo è una convenzione e in questo senso si interroga continuamente.

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Ho quasi sempre avuto la fortuna di conoscere gli autori che traduco. Quando lavoro a un libro cerco di confrontarmi con l'autore. Ho pagine e pagine di scambi di domande e risposte, opinioni e suggerimenti. Naturalmente tutto dipende dalla disponibilità dello scrittore, ma devo dire che ho trovato sempre collaborazione. Di più, amicizia. Con Michail Šiškin per esempio. Ed Elena Bočorišvili. Quasi ogni anno ci vediamo, ci ospitiamo a vicenda con tutta la famiglia. Non c'è autore con cui non mi sia scritta. Questo è un enorme vantaggio per chi traduce. L'autore smonta e rivela l'ingranaggio di una frase, può suggerire o confermare le fonti e le citazioni di cui pullulano i testi attuali, avvalla una tua ipotesi o la scarta, talvolta conferma l'opportunità di distanziarsi dalla letteralità per farsi più vicini al senso o restituire la comprensibilità nella lingua di arrivo. Appena ho iniziato a tradurre Memoria della memoria ho scritto a Marija Stepanova, e a cominciare dal titolo ci siamo confrontate su parecchi problemi. La sua chiarezza e capacità di sintesi sono state fondamentali.

E con gli editori per cui traduce?

Se ci riferiamo al dialogo con la redazione e al lavoro di cura del libro, accetto di buon grado il confronto, ma devo dire che non ho avuto esperienza di ingerenze o imposizioni. I miei revisori normalmente sono degli slavisti. Con loro il dialogo è franco. Quanto alle scelte editoriali, dipende dal tipo di casa editrice. Nelle realtà piccole o medie si entra in contatto non solo con la redazione ma spesso direttamente con l'editore, in altri casi con un redattore, ma diciamo che quello che importa è la serietà del dialogo, il fatto che il proprio lavoro venga rispettato e valorizzato. Per ora salvo qualche piccolo “incidente” sono stata fortunata, incontrando editori illuminati, corretti, indubbiamente coraggiosi.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

I ricordi belli sono tanti... quando Michail Šiškin ha invitato i suoi traduttori in 15 lingue a un workshop residenziale alla Translator House Looren in Svizzera per lavorare tutti insieme al suo ultimo romanzo, quella è stata per me un'esperienza di scambio e vicinanza rara. La soddisfazione arriva anche con i riconoscimenti come quando mi hanno conferito il Premio Italia-Russia attraverso i secoli o quando mi hanno invitato a dialogare con i miei scrittori al Babel Festival in Svizzera o a parlare delle mie traduzioni all'Università di Cracovia. Ma in realtà la gioia più grande (e terrificante) è ogni volta che metto mano alle prime righe di una traduzione e comincia una nuova avventura.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Non penso tanto a un libro in particolare, ma all'autore. Sì, perché di un autore che mi piace vorrei tradurre tutto il possibile, è il miglior modo per comprendere la sua poetica. Sono contenta degli autori che ho tradotto e non vorrei abbandonarli. Tuttavia se devo pensare a un libro che vorrei avere tradotto oggi penso a Il mio Puškin di Marina Cvetaeva, un'opera che sfugge alle classificazioni, bellissimo, immenso nella sua brevità.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Le cose stanno certamente migliorando, c'è interesse per quello che facciamo, del resto in un mondo attraversato dalle migrazioni, dalle costanti contaminazioni di culture il nostro mestiere non è solo una nicchia ma un tratto epocale: trasportare elementi di cultura da un contesto a un altro è uno degli atti distintivi del nostro tempo. Penso che il mondo culturale in genere se ne sia accorto e oggi ci lasci meno soli e meno in ombra di ieri. Bisogna dire però che manca ancora un riconoscimento definitivo ed esclusivo di questa professione, soprattutto per la traduzione letteraria. Difficilmente un traduttore riesce a vivere di sola traduzione  e tuttavia la traduzione è un lavoro a tempo pieno, e questo richiede un certo equilibrismo.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Gli consiglierei di viaggiare, di studiare e leggere immerso nella lingua che intende conoscere. E di essere aperto a tutti i modi di vivere coltivando relazioni. Perché alla traduzione giova un continuo confronto con persone anche molto diverse tra loro. E attraverso questo, il contatto con la lingua vivente.

Per Bompiani Elena Bonacorsi ha tradotto