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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Bruno Arpaia

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Bruno Arpaia

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Bruno Arpaia: scrittore, giornalista e traduttore classe 1947, per Bompiani ha tradotto Il selvaggio di Guillermo Arriaga e La trasparenza del tempo di Leonardo Padura.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Mai, in realtà. Ho iniziato per caso, per guadagnare qualcosa, dopo l’università, in attesa di un lavoro in una Napoli con la disoccupazione giovanile al 60%, mentre facevo il dattilografo in uno studio legale. L’ho fatto con enorme incoscienza, perché il libro che mi affidarono era nientedimeno che le Meditazioni del Chisciotte di Ortega y Gasset; e io non avevo mai nemmeno studiato lo spagnolo. Ma pare che il risultato non sia stato troppo male. Il lavoro mi è piaciuto e, quando ne ho avuto la necessità e la possibilità, ho ripreso a farlo.

Qual è il prossimo libro che vorrebbe tradurre?

Per adesso, dopo migliaia di pagine tradotte negli ultimi anni, mi piacerebbe riuscire a dedicarmi per bene a un romanzo mio…

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

La propria lingua.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Il traduttore è il lettore più attento, più profondo. Deve smontare un testo, ascoltarne la voce, il suono, il ritmo, i passaggi, eccetera. È ovvio che, quando sei un semplice lettore, tutto questo lavoro in qualche modo ti rimane dentro. Io, però, quando leggo per piacere, cerco di dimenticare ogni tecnicismo, di farmi trasportare dalla storia e dalla lingua. Cerco, insomma, il puro piacere del testo.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce?

Quando li traduco, di solito cerco di non rompere loro le scatole, di non fare domande (quando è possibile). Vorrei che la mia fosse una lotta corpo a corpo con il testo, punto. Questo non impedisce che spesso, traduzione a parte, io sia un buon amico o conoscente di molti scrittori che traduco. Ma il rapporto con loro va al di là delle traduzioni, della letteratura.

E con gli editori per cui traduce?

Direi che normalmente il mio rapporto con gli editori è buono, reciprocamente rispettoso. A volte combatto con redattori o redattrici che vorrebbero imporre i loro “vezzi” al posto dei miei, ma lo faccio sempre con grande e scherzoso rispetto, consapevole dell’importanza fondamentale di una buona revisione.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Qualche premio alla traduzione, anche se non è un mestiere che offra grandissime soddisfazioni pubbliche… Qualche sfida particolarmente difficile ben risolta. E soprattutto qualche incontro, propiziato dalle mie traduzioni.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Cent’anni di solitudine.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Assolutamente no. Qualche anno fa ho partecipato a una tavola rotonda a Parigi con altri colleghi francesi, spagnoli, tedeschi, svedesi... Alla fine della discussione, ho dovuto resistere a una sensazione di sconforto inconsolabile: all’estero non soltanto i traduttori guadagnano il doppio che in Italia e sono assistiti da un serio welfare, ma godono anche di royalties sulle vendite dei libri tradotti. Alcuni di quei colleghi erano riusciti a comprarsi addiritura una casa con i proventi del loro lavoro. Da noi, invece, facendo il traduttore professionale è difficilissimo vivere. Lo è sempre stato, chissà perché. Sono passati molti anni da quando Luciano Bianciardi, nella Vita agra, raccontava tragicomicamente la giornata di un traduttore e le difficoltà per sbarcare il lunario. Da allora, purtroppo, non è che si siano fatti molti passi in avanti. Sarebbe ora di dare finalmente a Cesare quel che è di Cesare.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Di questi tempi, e con quello che ho detto prima, proprio non me la sento di dare consigli…