Giunti Editore

— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista ad Andrea Asioli

Dire quasi la stessa cosa. Intervista ad Andrea Asioli

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Andrea Asioli: classe 1982, originario della provincia di Ravenna, vive e lavora a Bologna. Ha all’attivo numerose traduzioni e curatele dall’inglese per diversi editori.. Per Bompiani ha firmato le traduzioni di Ogni giorno è un dio di Annie Dillard e La biblioteca del ghiaccio di Nancy Campbell.

Ti piace questo articolo? Iscriviti alla newsletter, non perderti il prossimo!


Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Ero a Londra, studiavo al Warburg Institute e traducevo ogni giorno, dal latino all’inglese (non per svago, tengo a precisare), una gran quantità di oscuri brani di autori rinascimentali. Finiti gli studi, mi son detto: tradurre dall’inglese all’italiano dovrebbe essere più facile, perché non tentare?

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Un saggio sulla fortuna, sulla ricezione di Lucrezio nel Rinascimento, per Carocci. Ma il mio primo, e periglioso assai, esercizio di ribaltatura, dev’essere stato su un immaginifico trattato microscopico seicentesco, la Micrographia di Robert Hooke, del 1665, corredato da meravigliose, fantasmagoriche illustrazioni dello stesso Hooke (non tutti sanno che il Monumento al grande incendio di Londra fu originariamente progettato, per fungere da telescopio, da quest’uomo sfortunato e impudico): cellette di sughero, ommatidi di mosca, spaventosi pidocchi, pulci grandi quanto un gatto, formiche, fiocchi di neve, uova di bachi da seta. Se qualche editore avesse intenzione di consegnarlo ai torchi e, necessariamente, fallire, mi contatti senza impegno, io son qua.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Little Lives di John Howland Spyker (pseudonimo del grande Richard Elman, il romanziere di Taxi Driver), del 1978, scovato (scoperto, dissotterrato, riportato alla luce, preziosa reliquia archeologica) in una libreria di seconda mano newyorkese. Una prosa originalissima, la sua, che fa venir voglia – una volta tanto, a ragione – di gridare (in tono sommesso, di preferenza) al capolavoro. A cavallo tra l’Antologia di Spoon River e Winesburg, Ohio, con in più un tocco macabro alla Ambrose Bierce. Mai tradotto. Anche qui: nel cassetto ho già una cinquantina buona di pagine tradotte (queste sì per svago), certosinamente limate, su un totale di duecento tonde. Insomma: fatevi avanti editori! Per chi fosse curioso di avere altre informazioni, eccole, succintamente: Spyker/Elman, in questa sorta di ritratto rural-collettivo di un’America otto-novecentesca talmente vera da essere finta, assembla uno splendido e composito mosaico di microbiografie (evidentemente devo avere l’ossessione per tutto ciò è μικρός e γραϕία), una galleria indimenticabile di personaggi fissati a tempera policroma sulla pagina: stralunati contadini, reietti e mangialombrichi, predicatori, barrocciai, cristo-triplicatisti, padri che chiamano un figlio Bledsoe “perché è Eosdelb al contrario”. Non mi dispiacerebbe nemmeno tradurre l’agghiacciante libro fotografico di Michael Lesy, Wisconsin Death Trip (già il titolo è un programma). Se qualcuno non lo conoscesse, vada a vedersi il film che ne hanno tratto vent’anni fa. Comunque, nella mia libreria un intero scaffale è occupato da libri mai tradotti che vorrei tradurre, sono uno scout (non boy) indiavolato, appassionatissimo.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Parrà incredibile: il dizionario. Cioè, tutti i dizionari possibili immaginabili, nuovi, vecchi, vecchissimi. Sarebbe bello poterne fare a meno, senza che venga pregiudicata la qualità del proprio lavoro: si guadagnerebbe non poco in termini di produttività e autostima. Bene o male è quello che fanno gli interpreti. Un altro paio di maniche, certo. Ma bisognerebbe impararli a memoria, i dizionari, leggerseli alla stregua di romanzi storici o d’avventura, ché poi questo sono. Se non ricordo male, è grosso modo quello che fece Malcolm X chiuso in carcere.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Direi che ha influito non poco. Pur non essendo né formalista né russo, di un libro mi hanno colpito, da sempre, più le espressioni che la trama. Ma da quando ho iniziato a tradurre ho l’impressione di essere diventato più esigente nei confronti dell’oggetto-libro, e al tempo stesso, paradossalmente, meno schizzinoso. Più esigente perché non mi accontento di una lingua scialba, o poco coerente dal punto di vista logico (trovo che lo stile abbia molto a che spartire con la pertinenza logica, non so se mi spiego). Meno schizzinoso perché, da buon romagnolo, ho imparato che la materia di cui son fatti i libri, la lingua, è come il maiale: non si butta via niente. Non solo quella che affiora nero su bianco nei libri. Ma soprattutto la lingua-mondo ambiente (nel senso di circostante), che è come il vento su cui viaggiano i semi delle piante. Il traduttore, per risolvere le sue beghe intratestuali, i suoi dubbi, le sue perplessità, i suoi vuoti di memoria, me lo immagino con l’orecchio sempre teso e aguzzo verso ogni minimo avvenimento linguistico, interno o esterno al di lui o di lei cervello che sia. Come una cimice (non l’eterottero), come una specie di registratorino che pende dalle nuvole, acceso ventiquattro ore su ventiquattro, alla ricerca del mot juste: nella vana convinzione che esso esista. Un acchiappafarfalle, in senso nabokoviano – un altro, Nabokov, che di traduzione ne sapeva qualcosa (a proposito, conosco la sua ultima traduttrice, Franca Pece).  

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Alcuni erano morti, da secoli persino. In questo caso oserei parlare di legame necrofiliaco: live/dead, grateful-deadianamente. Con i vivi, in genere, un rapporto meramente, puramente, cordialmente, allegramente epistolare, di richiesta di informazioni, di chiarimento di passi. Non esito a scrivere, a fare domande, anche tante, se non ho capito qualcosa. Quanto agli incontri dal vivo, qualche anno fa, in occasione di una conferenza al Festival della Scienza di Genova, ho bevuto un paio di birre insieme a un chimico inglese che traduco per Bollati Boringhieri: uscire dal guscio alle volte scalda il cuore (e ti rende un po’ brillo).

E con gli editori per cui traduce?

Con alcuni editori è possibile instaurare un bel rapporto di fiducia. Ho avuto il privilegio di incontrare persone competenti e amichevoli, simpatiche, gioviali. Un’equazione che non sempre si dà. A Milano mi è capitato con Bompiani. A Torino con Einaudi e Bollati. A Bologna frequento quando possibile (scusate l’ossimoro) la redazione del Mulino. Rapporti sporadici ma vivificanti. La cosa che più mi dà gioia è quando ricevo un messaggio in cui mi viene offerta una nuova traduzione. Un entusiasmante ritorno al futuro si spalanca davanti a te.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Aver organizzato, anni fa, alla Biblioteca Classense di Ravenna, un convegno sul mondo dei traduttori che mi ha permesso di conoscere – e di diventare poi suo amico fraterno – un traduttore insigne, ma soprattutto una persona di rara umanità: Vincenzo Mantovani. Il culmine emotivo penso di averlo toccato quando, finito di centellinare in sua compagnia, il più lentamente possibile, una tazza di tè, che più il tempo passava più sembrava attingere capienze illimitate, tipo Fossa delle Marianne, allo scopo di imprimermi nella memoria quanti più racconti e parole sgorganti da cotanta fonte sorgiva, ho scortato Vincenzo fino alla stazione ferroviaria, e poi al binario, e infine sulla carrozza, dove ci siamo abbracciati.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

The Anatomy of Melancholy di Robert Burton, un’opera erudita farraginosamente geniale del Seicento inglese. Dovrebbe uscire a breve nella collana dei Millenni einaudiani, per merito di Mauro Bersani, gentiluomo d’altri tempi.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

In tutta franchezza, credo che il problema del traduttore editoriale oggi non sia quello di non vedersi stampati nome e cognome sulla copertina (alcuni editori, come Bompiani e Il Saggiatore, hanno peraltro già rimediato alla lacuna). A differenza di altre categorie di lavoratori, noi non aspiriamo a distintivi, onori mondani o corone trionfali, né sogniamo che ci dedichino monumenti equestri, intitolino piazze o vie (il minuscolo vicolino che omaggia Luciano Bianciardi giace occultamente incastonato all’estrema periferia dell’hinterland milanese). Il traduttore, cito Valery Larbaud, è il fanalino di coda, vive di elemosine, non chiede niente per sé; “servire”, aggiunge, è il suo motto, sua massima gloria l’essere fedele ai maestri che si è scelto fino all’annullamento della sua stessa personalità intellettuale. Chi traduce tende infatti, vuoi per intrinseche esigenze di solitudine, o carattere e inclinazione, vuoi per filogenesi e coazione masochistico-nichilista, a (godere nel) nascondersi dietro le quinte, non avere visibilità, distanziarsi a mo’ di eremita in monasteriali biblioteche pedemontane, e ad asserragliarsi mezzo separato dal mondo in afosi appartamenti cittadini, pub, osterie, sferraglianti treni post-atomici, giardini pubblici, ascensori e via a fantasticare altri più o meno consoni o improbabili ambienti lavorativi. Si tratta, credo, di una figura professionale molto più riconosciuta che in passato: esistono riviste specialistiche, se ne parla di più, e a tutti i livelli della filiera (ne sia prova questa stessa intervista, che mi istiga a sbrodolare a destra e a sinistra). Abbiamo pure un, meritorio, sindacato. Ma al mutato quadro culturale, che ci favorisce assegnandoci un posto più alto sul podio, non mi sembra corrisponda – non ancora, per lo meno – un miglioramento concreto nelle condizioni quotidiane di vita. Specie dal punto di vista economico, che è il vero tasto dolente per chi si accinge a questo mestiere. Alcuni miei assai più illustri colleghi concorderanno nell’affermare che per mantenere uno stile di vita appena dignitoso occorre sgobbare come muli da mane a notte (la fortuna di non dover timbrare un cartellino può tramutarsi in un’arma a doppio taglio). Premesse (ammesse e non concesse), e fatta la tara a tali avvertenze: tradurre è un bellissimo lavoro, anzi gioco, enigmistico se si vuole. E in senso più profondo è un magnifico ponte, una metaforica gettata di cemento, per giunta smaltibile ed ecologico, tra universi ed epoche diverse, che finiscono per comunicare tra loro come baluginanti stelle che si occhieggiano da distanze siderali.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Da uno che suonava la batteria in un gruppo chiamato Traulizi Strittabilla (vedi le rispettive voci sul Georges-Calonghi) non ci si potrà aspettare che, nella migliore delle ipotesi, insulsi consigli e vaneggiamenti o indecifrabili decaloghi alla Captain Beefheart. Ad ogni modo, e non scherzo, assicurati di godere di buona salute – non esistono tutele mediche, a quanto mi consta – e dopodiché non dovrebbero sussistere grossi problemi. Ogni tanto metti della poesia in ciò che fai, e non cercare di essere troppo ansioso di far bella figura. Sii avventuroso. Applica a te stesso il motto coniato da Alexander Pope: “To err is human, to forgive divine.” Non illuderti che la letteratura sia un mondo iperuranio in cui regna la perfezione. Gli stessi refusi sono lì a ricordarci che la fallibilità è il nostro destino, e ci si può sguazzare niente male. Infine, da’, e chiedi che ti venga riconosciuto, il giusto valore al tuo lavoro.