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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista ad Alberto Cristofori

Dire quasi la stessa cosa. Intervista ad Alberto Cristofori

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Alberto Cristofori: milanese, classe 1961, ha tradotto una settantina di libri, ha scritto vari manuali e commentato alcuni classici per le scuole. Del 2013 è il romanzo Ultimo viaggio di Odoardo Bevilacqua (Premio Comisso) e del 2016 la raccolta di racconti Nudità. Per Bompiani ha tradotto, tra gli altri, Spider di Patrick McGrath, Ballando ad Auschwitz di Paul Glaser, Capitale e disuguaglianza di Thomas Piketty, La casa dei buchi di Nicholson Baker, Satori di Don Wislow e La geografia del genio di Eric Weiner.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Mai. Non è stata una decisione, innanzitutto. La scuola mi ha portato a tradurre a poco a poco, prima con l’inglese e poi con il latino (dalla seconda media, ai miei tempi) e con il greco. Naturalmente la traduzione scolastica è cosa tutta diversa da quella editoriale, chiamiamola così, e io ci ho messo forse troppo tempo a liberarmi del “traduzionese” del liceo, ma è stato un passaggio graduale, non c’è stata nessuna illuminazione improvvisa. In secondo luogo, io non mi definisco un traduttore, ma uno che, nel suo piccolissimo, lavora nel campo della cultura e a cui perciò capita anche di fare delle traduzioni, all’interno di un ventaglio di attività che comprende la scrittura narrativa, quella divulgativa, l’insegnamento, l’editing... C’è in questo, non voglio negarlo, un po’ di istintivo fastidio per le etichette, ma c’è anche una decisione consapevole, diciamo pure ideologica: a me pare che il lavoro culturale, oggi come in passato, non possa che svolgersi su tanti fronti diversi. Sia chiaro: ho il massimo rispetto per chi dedica tutta la propria vita all’approfondimento di un solo settore, ma io ho sempre tratto ispirazione soprattutto dagli eclettici alla Moravia, alla Calvino, alla Primo Levi. Il rischio, me ne rendo conto, è di seguire tutte le proprie curiosità e di disperdersi, di diventare quello che un tempo si diceva un “poligrafo”. Per questo mi interrogo spesso sul significato di quello che faccio e cerco di mettere le mie varie attività “in prospettiva” e di dare un senso complessivo a quello che faccio.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Il primo pubblicato è stata una sceneggiatura di Luis Buñuel, I figli della violenza, per la casa editrice Linea d’ombra, che affiancava la rivista di Goffredo Fofi. Parlo degli anni ottanta del Novecento. Ho avuto una fortuna straordinaria, è un testo bellissimo. L’unico rimpianto: ero giovane e inesperto e ho accettato che l’editore conservasse il titolo dato al film in Italia. Oggi insisterei per rispettare le intenzioni dell’autore: il titolo originale è molto più bello: Los olvidados, “I dimenticati”, che indica i bambini soli di Città del Messico, quelli che venivano abbandonati dalle famiglie a causa della miseria.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Non ho in mente autori o titoli, o forse ne ho troppi. Diciamo che mi piacerebbe tradurre sempre libri onesti, nel senso che Umberto Saba dava a questa parola in una famosa dichiarazione di poetica. Il traduttore, più di chiunque altro, si rende conto se un libro è onesto fino in fondo, o se lo è solo in parte, o se non lo è per niente. Io ho avuto la fortuna di tradurre parecchi libri onesti, e sono quelli che lasciano il segno.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Ce ne sono parecchi molto importanti, e non mi piacciono le classifiche. Io ho cominciato a fare questo lavoro scrivendo a macchina, perché ancora non possedevo un computer – oggi nessuno lavora più in quel modo, il computer ha enormemente velocizzato la revisione del testo, ma anche l’uso del dizionario, le ricerche “intorno” al testo, per esempio quando si incontrano termini tecnici, o si devono verificare alcuni riferimenti spaziali e così via... La risposta però non è “il computer”, semmai “il cervello” – quello umano, non quello elettronico. Il computer è un contenitore di molti strumenti preziosi, ma da solo non fa un bel niente. Lo stesso vale per il dizionario. I veri problemi del traduttore non sono quasi mai di lessico né di grammatica, ma di enciclopedia – bisogna capire e rendere comprensibile al profano ciò che appartiene a un mondo diverso dal nostro. E questo vale per il registro linguistico, l’espressione gergale, certo, ma soprattutto per i contenuti profondi, i riferimenti impliciti, certi dettagli – a me è capitato di passare non so quante ore sulla descrizione di un gioco con le carte del tutto ignoto in Italia, o su pagine bellissime dove l’autore descriveva aromi e colori di alcuni piatti della cucina indiana da noi quasi introvabili...

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Diciamo che leggere e tradurre sono due aspetti dello stesso lavoro. Tradurre in fondo è un leggere in modo molto approfondito. È un “leggere per gli altri”, come quando si annota un sonetto di Petrarca o si commenta un racconto di Verga. La traduzione è strettamente legata all’idea di servizio. Se vogliamo affrontare un discorso più tecnico, è vero che l’abitudine a tradurre spinge a leggere in filigrana le traduzioni altrui: si notano certi trucchi del mestiere, si ammirano certe soluzioni (“questa gliela rubo alla prima occasione”) e così via. A volte si intravede il testo di partenza: il gioco di parole “Uranus-your anus”, che nella traduzione italiana di Harry Potter inevitabilmente si perde, io l’ho “visto” pur non avendo davanti l’originale. Si diventa un po’ nerd, insomma, questo sì.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce? E con gli editori per cui traduce?

Uno dei vantaggi di internet è che spesso si riesce a stabilire un rapporto diretto con gli autori viventi. Magari bisogna passare dall’editore o dall’agente, ma ci si riesce. In generale ho trovato molta collaborazione. Mi è capitato anche di evidenziare qualche piccola svista, e sono stato ringraziato (è avvenuto per esempio con Atticus Lish, l’autore di Preparativi per la prossima vita, uno dei libri che sono più contento di aver tradotto). In altri casi ho trovato un po’ di freddezza, e quando capita si finge che l’autore sia morto o irraggiungibile e si risolvono dubbi e problemi in altri modi. In fondo, il rapporto è sempre con il testo – quando mi è capitato, dopo la pubblicazione in Italia, di incontrare un autore con cui avevo convissuto per mesi, molte ore al giorno, quasi non ho saputo cosa dirgli, avevo l’impressione che ci fossimo già detti tutto mentre soppesavo parola per parola le sue seicento pagine... Un caso divertente, a posteriori, è quello di un autore “protetto” da una sorella sposata con un italiano, e quindi convinta perciò stesso di avere tutte le credenziali per farmi le pulci. Sono riuscito in più occasioni a dimostrare a McGrath (era lui, sì) che i “gravi errori” individuati dalla signora non erano tali, ma dopo otto volumi il fardello è stato felicemente affidato a qualcuno con una dose di pazienza più fresca della mia. Per quanto riguarda le persone incaricate della revisione e della redazione del mio testo, io sono convinto che i buoni testi (non solo le traduzioni: anche i romanzi, i saggi, perfino le poesie) nascono da un lavoro collettivo, dalla collaborazione fra molte persone. I libri sono molto simili ai film, anche se il pubblico preferisce pensarla diversamente. A volte mi è capitato di scontrarmi – non su singoli problemi, ma sull’impostazione generale del lavoro. Di solito non mi impunto, anche quando credo di avere ragione (cioè sempre!), perché si tratta di battaglie che in ogni caso finiscono con la sconfitta del libro. Se proprio penso che il mio testo sia snaturato, evito di firmarlo. Ma in generale ho ricevuto soprattutto molto aiuto: capita infatti di infilarsi in vicoli ciechi, di essere stanchi o di fretta, o di avere delle forme di “cecità” che meriterebbero l’intervento di un bravo analista. Per esempio, una volta traducevo Tarantino (lui non è stato raggiungibile) e mi sono incagliato di fronte al misterioso terri misu mangiato da un personaggio - dopo aver compulsato invano tutti i dizionari a disposizione e metà delle enciclopedie e dei ricettari del pianeta, ho alzato bandiera bianca e ho scritto a un’amica editoriale che frequenta gli States e pensavo potesse quindi illuminarmi su questo esotico alimento. La soluzione del rebus è arrivata in un decimo di secondo – ero di fronte al vecchio caro tiramisù, traslitterato da cani!

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Sono due ricordi, legati allo stesso libro. Ero appena uscito dall’università quando Luigi Bernabò, che all’epoca lavorava in Rizzoli, mi affidò la traduzione di un libro dopo un’oretta di colloquio. Mi sembrò e continua a sembrarmi un gesto di fiducia bellissimo, un atto di generosità nei confronti di un giovane senz’arte né parte, pieno solo di voglia di fare e di malriposta fiducia in se stesso – non l’ho mai dimenticato. Quando consegnai la traduzione, al posto di Bernabò c’era Rosaria Carpinelli, che bocciò senza appello il mio lavoro. Fu una batosta salutare – e anche in questo caso il giudizio fu accompagnato da generosità e fiducia: non solo la traduzione mi venne pagata (e non me lo meritavo!), ma quando uscì la versione rifatta di sana pianta da un altro, ne ricevetti una copia e passai settimane a confrontarla con la mia, dandomi pugni in testa e imparando come mai non avrei potuto fare altrimenti. Lasciai passare due anni prima di ripresentarmi a un editore...

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Tom Jones. Perché Henry Fielding è l’autore su cui mia madre ha scritto la sua tesi di laurea, e per qualche ragione che non voglio indagare in casa nostra il suo nome non è mai stato fatto e i suoi libri non sono mai comparsi. Ho dovuto scoprirlo da solo, quand’ero ormai adulto, e l’ho fatto attraverso traduzioni vecchie, che non rendevano giustizia a questo capolavoro. Mi piace credere di essere destinato a tradurre questo romanzo, prima o poi.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

So che molti colleghi si lamentano, e forse hanno buone ragioni per farlo. A me tuttavia pare che il mio lavoro sia pagato onorevolmente. Anche la considerazione, il prestigio, diciamo così, della categoria, a poco a poco va crescendo. C’è sempre margine per migliorare, ma se devo indicare un problema di ingiustizia urgente, mi vengono in mente i bambini che cercano l’oro in Africa, o i minatori che estraggono carbone in Cina, o i raccoglitori di pomodori schiavizzati nel nostro Meridione, non i traduttori editoriali. Io sono un privilegiato: nel mondo c’è chi mangia quando può, io sono fra quelli che mangiano quando vogliono, e quasi sempre mangio anche quello che voglio.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Tre consigli: leggere, leggere, leggere. Senza confini e senza preclusioni. Io credo che l’idea della cultura nazionale, delle patrie lettere, se mai ha avuto un senso, e ne dubito, oggi è davvero risibile. Bisogna conoscere il più possibile, essere curiosi di tutto, leggere autori italiani, stranieri, tradotti e non. Quando ero un ragazzo, i miei genitori, persone piuttosto colte e attente, non avevano nella loro biblioteca autori africani e forse neanche asiatici, a parte Tagore. Oggi gli editori mi propongono continuamente di tradurre testi provenienti dall’Afghanistan o dalla Nigeria o dalla Turchia o dall’India – a me pare una sfida bellissima, l’occasione per approfondire mondi che altrimenti mi resterebbero estranei... E poi, ma sono corollari: sviluppare il piacere della precisione, il gusto della maniacalità (Primo Levi diceva: “Distillare è bello”, che potrebbe essere il motto del traduttore), e nello stesso tempo tenere presente che nessuna traduzione è perfetta, nessuna traduzione è definitiva, c’è sempre un’alternativa valida. Mi sembra una bella lezione, etica e politica.