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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Raffaella Belletti

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Raffaella Belletti

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Raffaella Belletti, traduttrice dal russo, dal ceco, dal polacco e dall'inglese, autrice della nostra traduzione di Nella quiete del tempo di Olga Tokarczuk.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Ho studiato lingue slave (russo, polacco e ceco) alla Sapienza e nell’inverno 1978-79 ero a Praga con una borsa di studio per lavorare alla mia tesi di laurea in filologia slava. Mi contattò Dino Bernardini, storico direttore e anima della rivista Rassegna Sovietica, una persona gentile e di grande intelligenza che dava molto spazio ai giovani, e mi propose la traduzione di un articolo sui diritti d’autore in URSS. Come si può immaginare non si trattava di un tema particolarmente stimolante, ma la cosa mi piacque, e a quella prima seguirono molte altre traduzioni. Capii subito che si trattava di un’attività che mi si confaceva: avere un piccolo mondo conchiuso su cui lavorare e di cui appropriarsi con fatica per essere infine in grado di riprodurlo in un’altra lingua. Un po’ come risolvere un’espressione matematica: hai di fronte una stringa piena di incognite al cui interno operare per arrivare infine a una soluzione. Da allora non ho più smesso di tradurre, non solo dal russo, dal ceco e dal polacco, ma anche dall’inglese, una lingua che ho studiato fin da bambina.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Sempre in quell’inverno fortunato fui contattata da Sandra Ozzola e Sandro Ferri della casa editrice e/o, che stava nascendo proprio in quei mesi. Mi proposero di tradurre Il vangelo secondo Giuda (Apocrifo) dello scrittore polacco Henryk Panas, un romanzo molto bello in cui la storia di Gesù è scritta dal punto di vista di Giuda sulla base di fonti al di fuori delle Sacre Scritture. È stato il primo libro che ho tradotto. Poi per la e/o ne ho tradotti altri quindici.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Mi piacerebbe molto ritradurre alcuni classici russi. Ci sono tanti libri di autori russi tradotti nella prima metà del secolo scorso da grandi pionieri della traduzione. Penso ad esempio a quelli usciti nelle collane della casa editrice Slavia di Torino o dell’Istituto per l’Europa Orientale di Roma tra gli anni ’20 e ’40. Si tratta di ottime versioni la cui lingua si è però invecchiata e appare desueta, ostica al lettore di oggi. Ecco, mi piacerebbe molto ritradurne alcuni tenendo sotto gli occhi, accanto all’originale, la prima versione.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Sicuramente dei buoni repertori e dizionari. Ormai grazie a Internet il traduttore ne ha a disposizione un’infinità. Ma anche il lavoro metodico, la pazienza e il non arrendersi mai: c’è (quasi) sempre un modo per rendere al meglio quanto è scritto nella lingua di partenza senza tradire il testo originale.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Senz’altro. Se leggo un libro in lingua originale, mi chiedo come tradurrei questo o quel termine, o come risolverei dei problemi particolarmente spinosi. Se invece leggo un libro in traduzione, da qualunque lingua esso sia, non solo dalle “mie”, mi chiedo spesso come fosse l’originale e come abbia fatto il traduttore a superare asperità o difficoltà. Diciamo che, in entrambi i casi, si tratta di una lettura molto attenta.

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Non cerco a tutti i costi il contatto con loro, ma naturalmente, nel caso ci sia bisogno di un chiarimento che solo loro possono dare, non esito a contattarli. Ho sempre avuto esperienze positive con gli autori, si sono sempre dimostrati gentili e disponibili. Il legame più profondo è però quello che si instaura lavorando sui loro libri e leggendo le loro opere.

E con gli editori per cui traduce?

Sono fortunata. Con redattori ed editor, tranne in casi veramente rarissimi (forse è successo una sola volta), ho sempre avuto ottimi rapporti. Considero il loro lavoro una risorsa fondamentale, sia per il controllo di eventuali errori che per suggerimenti. Una buona collaborazione tra traduttore e redattore non può che migliorare il lavoro. Anche con gli editori sono stata spesso in sintonia, coltivando rapporti che in alcuni casi sono sfociati in amicizie basate sull’affetto e sulla stima reciproca. Certo, a volte, soprattutto per quanto riguarda le proposte di libri da tradurre, i criteri di giudizio dell’editore non coincidono con quelli del traduttore, intervengono questioni economiche che però, nel caso di editori coraggiosi e aperti, vengono superate.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Mi ha molto emozionato tradurre l’Assassino cieco di Margaret Atwood, contattare l’autrice e incontrala di persona a Roma. La sua dedica sul frontespizio della traduzione italiana è una delle cose a cui tengo di più.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Tra tutti mi viene subito in mente Vita e destino di Vasilij Grossman, tradotto benissimo da Claudia Zonghetti.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Direi di no. Credo che spesso le traduzioni non siano pagate adeguatamente, e che forse si dovrebbe prevedere il versamento di royalties al traduttore, come accade in alcuni paesi. A parte il discorso economico, di regola al traduttore non viene dato il giusto spazio: basti pensare che nei siti di alcuni editori non viene indicato il nome di chi ha tradotto il libro. Qualcosa però piano piano comincia a muoversi: c’è perfino chi mette il nome del traduttore in copertina!

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Leggere tanto, tanto e di tutto, perché gli ambiti su cui documentarsi nel corso di una traduzione possono essere i più vari; leggere le traduzioni dei maestri; lavorare metodicamente e leggere anche gli altri libri dell’autore per penetrare più a fondo nel suo mondo.

 

Per Bompiani Raffaelli Belletti ha tradotto