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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Mara Dompè

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Mara Dompè

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Mara Dompè, che ha tradotto per noi Piccolo paese di Gaël Faye14 scoperte scientifiche che non sono servite a niente di Aleksandra Kroh e Madeleine Veyssié e Macchine per scrivere, bombe, meduse di Tom McCarthy.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Non è stata una decisione, ma una bella occasione capitata. Avevo da poco pubblicato i miei primi due libri per ragazzi ed era cominciata una collaborazione con la Divisione Ragazzi di Mondadori, che all’epoca era a Verona; si trattava soprattutto di revisioni di traduzione. Da questa collaborazione, molto stimolante e formativa, è nata, poco dopo, la prima proposta di traduzione su un piccolo progetto seriale per ragazzine. Prima di allora, a parte qualche seminario di traduzione letteraria ai tempi dell’università, non mi ero mai confrontata con questa attività.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Dopo quella piccola serie, il primo libro “impegnativo” che ho tradotto è stato un saggio di David Khayat, un medico oncologo francese, per una casa editrice specializzata in saggistica e divulgazione scientifica. Da quel momento in poi, la traduzione è diventata il mio lavoro.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Visto che la letteratura per ragazzi è una mia passione, non mi dispiacerebbe tornare alle origini e sperimentarmi in un bel romanzo young adult o anche in un libro rivolto a una fascia d’età più bassa. Oppure mi piacerebbe ritrovare uno scrittore che è stato molto bello tradurre, Gaël Faye, autore di Piccolo paese. Ho amato molto quel romanzo che, attraverso lo sguardo e la voce di un bambino, racconta la tragedia del genocidio rwandese. Il contrasto tra quella voce e la realtà narrata è davvero potente. Aspetto con impazienza che Gaël Faye scriva un secondo libro.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Lo strumento fondamentale, naturalmente, è la lingua, la nostra capacità di modellarla per riuscire a raggiungere quell’obiettivo di “dire quasi la stessa cosa”. Se poi parliamo di strumenti che possono venire in nostro aiuto, il web è sicuramente una grossa risorsa. Permette di visualizzare luoghi e oggetti, di risolvere dubbi, di fare ricerche in modo immediato. Mi capita spesso di pensare a quanto potesse essere più complicata la vita di un traduttore qualche decennio fa. Un altro aiuto importantissimo viene dal parere e dai consigli dei colleghi: quello del traduttore è un lavoro decisamente solitario, ma a volte si rivela molto utile confrontarsi. Spesso, poi, sono preziosissime le biblioteche, quando si tratta di documentarsi o di andare a caccia di citazioni.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Ha certamente influito parecchio. Faccio molta fatica a leggere senza farmi domande “da traduttrice”. Se leggo qualcosa in lingua, mi perdo a immaginare soluzioni di traduzione, se leggo in traduzione mi distraggo continuamente immaginando l’originale, e a volte non resisto all’impulso di andarmelo a cercare

Che tipo di legame crea con gli autori che traduce?

Nel mio caso, il rapporto di solito non va al di là della pagina. In un’occasione, questo rapporto virtuale si è prolungato per un decennio perché mi è capitato di tradurre una serie costituita da diversi volumi che uscivano a cadenza annuale. Così ogni anno sapevo di avere il mio appuntamento fisso non solo con una nuova avventura del detective protagonista e tutto il suo entourage, ma anche con l’autore, nel caso specifico una coppia di sorelle scrittrici sotto pseudonimo. Al nono volume, sono state loro a colmare la distanza autore-traduttore, pubblicando una piccola tiratura speciale indirizzata a noi traduttori nelle varie lingue, per ringraziarci di aver portato i loro personaggi in giro per il mondo e per scusarsi, scherzosamente, per averci reso la vita difficile con continui giochi di parole e con espressioni tratte dal francese popolare. Il volume aveva una piccola dedica personale: un bel regalo che ho apprezzato molto.

E con gli editori per cui traduce?

Con gli editori e con le redazioni il rapporto è spesso circoscritto a scambi di mail o telefonate. È bello quando, a volte, ci si conosce di persona e si dà finalmente un volto ai nomi. In generale, comunque, con gli editori seri si crea un rapporto di reciproca fiducia, mentre si impara a stare alla larga da altri meno seri, in cui ogni tanto, sfortunatamente, ci si imbatte.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Un premio per una traduzione ricevuto a Fano nel corso di una bellissima tre giorni. Il premio non era conferito da una giuria di addetti ai lavori, ma da classi di ragazzi delle superiori, quindi possiamo dire che, più che un premio alla traduzione, sia stato un premio al libro: votavano la traduzione, ma credo che si siano innamorati del romanzo. È comunque appagante aver dato il mio contributo a far apprezzare quel libro. Ed è stato bello anche incontrare i ragazzi e scoprire le loro curiosità su questo mestiere. Un’altra esperienza bellissima e per me del tutto nuova è stata quella di passare dall’altra parte e vedermi “tradotta”. È capitato con un mio albo illustrato tradotto in portoghese per un editore brasiliano da un’amica e collega, la scrittrice e traduttrice Claudia Souza. In quell’occasione mi sono fatta un’idea di quello che il mio lavoro può significare per l’autore. Leggersi e riconoscersi, per quanto estranea possa essere la lingua d’arrivo, in altre parole e altri suoni.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Forse non ho mai pensato “questo libro vorrei averlo tradotto io”. Mi capita piuttosto di chiedermi come avrei tradotto un passaggio specifico. Ma se il libro è bello e ha una bella traduzione cerco di godermi la “fatica” fatta da qualcun altro…

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Nel mondo editoriale, o almeno in un certo mondo editoriale, penso che le cose stiano migliorando: l’iniziativa di questa serie di interviste che offre ai traduttori l’opportunità di raccontarsi è un esempio di un’attenzione sempre maggiore. Certo sarebbe bello che accanto alla retribuzione a cartella fosse prevista anche una piccola percentuale di royalties. Anche a compenso del fatto che la figura professionale del traduttore non gode di nessuna tutela.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Il consiglio ovvio di leggere tanto. Nella pratica della traduzione, di non imporre il proprio stile e la propria voce ma di cercare sempre di avvicinarsi il più possibile a quelli dell’autore. E poi di rileggersi a distanza, chiedendosi in che modo si sarebbe potuto fare meglio.