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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Alessandro Bassini

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Alessandro Bassini

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Alessandro Bassini, traduttore dallo svedese e firma della versione italiana del romanzo di Sami Said L'uomo è la città più bella.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Il mio interesse per la traduzione letteraria risale ai tempi dell’università. Dopo la laurea in Lingue e Letterature scandinave all’Università di Milano, cominciai a collaborare con la casa editrice Iperborea come lettore professionista. Si tratta di un apprendistato importante, perché si impara a valutare i libri ancora non tradotti in base a parametri diversi rispetto al proprio gusto personale: bisogna capire se un romanzo è adatto al catalogo dell’editore, se può incontrare il favore del pubblico ecc. Poi arrivarono le prime prove di traduzione, altra palestra faticosa ma necessaria.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Montecore – Una tigre molto speciale di Jonas Hassen Khemiri, pubblicato da Guanda nel 2009. Fu un autentico battesimo del fuoco. Una delle voci narranti del romanzo appartiene al padre dell’autore, un tunisino trapiantato in Svezia negli anni settanta, il quale racconta la sua esperienza di migrante con una lingua sgrammaticata, piena di calchi dal francese ed espressioni idiomatiche arabe tradotte parola per parola. Trovare un corrispettivo in italiano fu un vero rompicapo. Questa esperienza però mi è tornata utile anche per la traduzione di L’uomo è la città più bella di Sami Said, sebbene lo sperimentalismo linguistico in questo caso sia più contenuto.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Mi piacerebbe moltissimo tradurre Le regole del gioco, una raccolta di racconti di Jonas Karlsson, uno scrittore capace di immaginare situazioni all’apparenza surreali ma che in realtà potrebbero essere solo le estreme conseguenze del nostro modo di vivere oggi.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

La capacità di trovare il giusto equilibrio fra perizia e creatività. La traduzione richiede una precisione ai limiti del maniacale, ma al contempo occorre essere creativi, non cedere a soluzioni facili o arrendersi a ciò che appare intraducibile. Tradurre non significa banalmente trasporre un testo da una lingua a un’altra, ma ripensarlo – e quindi ricrearlo – in una nuova veste culturale oltre che linguistica. Se pensiamo invece a strumenti tecnici, sicuramente internet è una risorsa ormai importantissima. Però, come spesso accade con mezzi così potenti, è fondamentale saperli usare, altrimenti si rischia di prendere solenni cantonate.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Sì, senza dubbio. Anche se cerco di separare le letture di lavoro da quelle di piacere, è impossibile mantenere una distinzione rigida. Mi capita di leggere romanzi svedesi per puro diletto e di sorprendermi a riflettere su come tradurrei una determinata espressione. Oppure, se leggo narrativa italiana, mi soffermo su alcune scelte lessicali pensando a come potrei usarle in una traduzione. Credo che sia una normale deformazione professionale. Mi sento più rilassato quando leggo in inglese, lingua che padroneggio ma dalla quale non traduco.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce?

Lavorando con la letteratura svedese contemporanea e vivendo a Stoccolma, ho la fortuna di poter incontrare di persona gli autori che traduco. Di solito, alla fine di una traduzione, li contatto via e-mail per sottoporre i dubbi che sono sorti durante il lavoro e su cui vorrei conoscere il loro parere. Spesso mi è capitato di incontrarli per discutere di persona su alcune scelte. Il legame che si stabilisce può essere forte e duraturo a prescindere dal numero di testi tradotti. Con Göran Rosenberg, per esempio, di cui ho tradotto un solo libro, Una breve sosta nel viaggio da Auschwitz, si è creato un rapporto di amicizia e di stima che dura ancora oggi. Quando gli dissi che avrei partecipato a un convegno a Firenze sull’autobiografia, dove avrei parlato appunto del suo libro, mi diede molti consigli e materiale su cui lavorare. L’estate scorsa, invece, mi chiese di tradurre un suo articolo su Lecce, dove aveva trascorso le vacanze, perché voleva mandarlo a un amico del posto che gli aveva fatto da cicerone fra le bellezze del barocco salentino.

E con gli editori per cui traduce?

Ad eccezione di un caso, in cui la casa editrice fallì, lasciando molti compensi non pagati (fra cui il mio!), ho sempre avuto un ottimo rapporto con tutte le persone coinvolte nelle diverse fasi della lavorazione di un libro. Non solo con gli editori, quindi, ma anche con i revisori, che sono i veri interlocutori dei traduttori nella fase cruciale fra la “nostra” traduzione e quella che poi va in stampa. Di rado mi è capitato di riscontrare interventi arbitrari sul mio lavoro, anzi, quasi sempre il confronto con i revisori ha determinato un netto miglioramento delle mie traduzioni.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Quando Tutto quello che non ricordo di Jonas Hassen Khemiri entrò nella cinquina dei finalisti del Premio Strega Europeo nel 2017. Tra l’altro, l’autore poteva essere presente solo alla serata finale, per cui gli organizzatori mi chiesero di presentare il romanzo negli incontri dei giorni precedenti.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Difficile scegliere un solo titolo. Mi sarebbe piaciuto tradurre La sciagura di chiamarsi Skrake di Kjell Westö, uno scrittore che appartiene alla minoranza linguistica svedese che risiede in Finlandia. Questo romanzo è una splendida saga che abbraccia un secolo di storia finlandese attraverso le disavventure di tre generazioni della famiglia Skrake. È stato tradotto dalla bravissima Laura Cangemi, che ha saputo interpretare perfettamente la lingua di Westö.
Credo però di essere legato ancora di più a Bambino bruciato di Stig Dagerman. Si tratta di un grande classico della letteratura svedese del secondo dopoguerra. Lo lessi in italiano quando avevo vent’anni, la stessa età del protagonista, poche settimane prima di partire per l’Erasmus a Stoccolma. Fu un’autentica folgorazione e il migliore auspicio per quell’esperienza che poi ha segnato moltissimo la mia formazione.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

La situazione è migliorata, ma non si può certo definire ideale. Sono aumentate le tutele, grazie all’impegno del sindacato Strade, così come i programmi di sostegno alla traduzione dell’Unione Europea prevedono maggiori garanzie e visibilità per i traduttori. D’altra parte, la nostra resta una professione poco remunerativa dal punto di vista economico, e discontinua, perché il flusso di traduzioni non è costante e spesso va conciliato con un altro lavoro. Personalmente, però, devo riconoscere che mi avvantaggia tradurre dallo svedese, una lingua poco nota e quindi meglio pagata, e di aver iniziato questo mestiere poco prima del boom del giallo scandinavo esploso sulla scia della trilogia di Stieg Larsson. All’epoca, ormai più di dodici anni fa, anche un giovane alle prime armi come me riceveva numerose offerte e l’interesse generato per questa area linguistica continua ancora oggi.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Di armarsi di sano pragmatismo. Non solo è difficile vivere di sola traduzione, ma anche quando capita, è raro che si amino tutti i libri che capita di tradurre. Per questo, consiglio di appassionarsi ad alcuni temi o ad alcuni autori, e di approfondirli leggendo e studiando. Per quanto possa sembrare scontato, se ci si appassiona a un tema o un autore, il lavoro di traduzione risulterà meno ostico.

 

Per Bompiani Alessandro Bassini ha tradotto