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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Guia Cortassa

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Guia Cortassa

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Guia Cortassa, traduttrice per noi di Una vita a scrivere, raccolta di saggi sul tema della scrittura a firma di Annie Dillard.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Vengo da una famiglia in cui il linguaggio, in tutte le sue forme – verbale, letteraria, musicale, o di programmazione – è sempre stato fondamentale. Da bambina ho imparato a leggere molto presto, e ho avuto la fortuna di crescere bilingue, circondata da libri in italiano e in inglese. Da che ne ho memoria, ho sempre immaginato che suono avrebbe avuto ciò che leggevo o sentivo in una lingua nell’altra: guardando i film doppiati mi concentravo sui movimenti labiali degli attori per cercare di intuire cosa dicessero nella loro lingua madre; e quando avevo a disposizione le due versioni dello stesso testo, giocavo a indovinare come fossero le frasi originali. Tradurre per me è un esercizio molto naturale.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Sono stata ragazzina negli anni del Brit Pop, e a quei tempi in Italia gli instant book sui fenomeni musicali stranieri non esistevano. Così approfittavo dei viaggi all'estero di mio padre per farmi portare tutte le pubblicazioni possibili sulle band che ascoltavo, per poi passare i pomeriggi nella mia stanza a tradurli in fanzine che non sarebbero mai uscite dall'hard disk del mio enorme PC.
A livello professionale, invece, ho iniziato il mio percorso nel mondo dell’arte contemporanea, traducendo testi e saggi per monografie, cataloghi e riviste

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Sono un’amante della non-fiction letteraria americana, soprattutto di quella che racconta la vita nei luoghi considerati più svantaggiati e meno interessanti degli Stati Uniti, e mi piacerebbe poterne diventare una delle voci italiane. Ma se devo fare un titolo, direi The Sarah Book di Scott McClanahan.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Sono due: l'ossessione per la ricerca lessicale e l'orecchio musicale. L'orecchio deve guidare la forma, l'ossessione il contenuto. Credo molto nella mimesi quando si tratta di traduzione.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Come raccontavo prima, penso che nel mio caso abbia influito di più sul mio essere una traduttrice essere stata in prima istanza una lettrice.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce?

Tradurre, per me, è viaggiare nella mente di qualcun altro, muovendosi a ritroso per decifrare le scelte che ha fatto mentre scriveva: sono convinta che sia il più alto grado di intimità editoriale e letteraria a cui si possa arrivare. Non mi è mai capitato di avere un contatto diretto con gli autori di narrativa che ho tradotto, ma non per questo la relazione che si è creata – almeno da parte mia – è stata meno personale e profonda.

E con gli editori per cui traduce?

I caporedattori, gli editor, i traduttori, i revisori e tutti coloro che prendono parte alla realizzazione di un libro sono una squadra che lavora in sinergia per un obiettivo comune e molto più grande: rendere disponibili opere letterarie a un pubblico sempre più ampio. Mi piace quando si crea un legame umano, orizzontale e informale, che permette di scambiarsi opinioni e input in modo costruttivo, senza la necessità di rimarcare il proprio posto all'interno della gerarchia del gruppo. Purtroppo, non sempre succede.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

La prima volta che ho visto una mia traduzione disponibile in preordine sul sito di una libreria online. In quel momento mi sono resa conto davvero di quante persone avrebbero avuto accesso al mio lavoro, della mia responsabilità a riguardo, e dell'importanza culturale di questa professione.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

Vorrei aver tradotto quasi i tutti i libri che ho letto in lingua originale che mi hanno emozionato e trascinato vorticosamente nelle loro vicende e tra le loro pagine, quando li ritrovo sugli scaffali delle librerie italiane, per poter godere ancora di più delle loro parole. Se, invece, penso ai miei sogni, la risposta è tutta la non-fiction di David Foster Wallace.

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

Sono contenta dell'attenzione sempre maggiore che le case editrici stanno dando ai traduttori, per esempio mettendo i loro nomi in copertina, ma resto convinta che quello del traduttore sia un mestiere da compiere nell'ombra, come un esercizio filantropico, rimanendo sempre a servizio dell'autore e del testo. Al contrario, credo che analizzare anche la traduzione sia fondamentale per la lettura critica di un libro, e quindi un aspetto fondamentale di ogni possibile recensione.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Leggi, ascolta, cerca, componi. Butta via tutto. Rifallo da capo. Essere soddisfatti è il primo segno che il lavoro svolto fino a quel momento non è abbastanza buono.

 

Per Bompiani Guia Cortassa ha tradotto: