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— Parola al traduttore

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Ingrid Basso

Dire quasi la stessa cosa. Intervista a Ingrid Basso

"Dire quasi la stessa cosa" è una serie di interviste ai nostri traduttori, per conoscere meglio questa splendida professione. Abbiamo parlato con Ingrid Basso: ricercatrice in filosofia teoretica, studiosa del pensiero di Søren Kierkegaard, collabora con diverse case editrici come traduttrice letteraria dal danese e dal norvegese. Per Bompiani ha tradotto Gli invisibili di Roy Jacobsen Angolo cieco di Dorthe Nors.

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Quando ha deciso che voleva diventare un traduttore?

Lo sono diventata senza deciderlo. Non c’è stata una fase di pianificazione, mi sono ritrovata a farlo. Prima per necessità personale: stavo scrivendo la tesi di dottorato (in filosofia) e avevo bisogno di mettere a disposizione del lettore del mio lavoro delle fonti, dei testi, che esistevano solo in lingua danese, mi servivano per dimostrare una tesi. Il mio scopo era quindi rendere accessibili dei contenuti, e il mio interesse era incentrato così prevalentemente sul significato. È stato poi traducendo letteratura che il mio orizzonte è cambiato, per forza di cose. Qui il piano stilistico ha imprescindibili esigenze sue proprie, che possono esulare dal piano del puro e semplice rigore logico. Ho sempre amato la letteratura, ma se ho iniziato a tradurla è stato perché si trattava di un lavoro che mi consentiva di guadagnare mantenendo vivo il cervello (diciamo così) e continuando a fare ricerca, almeno finché ero in attesa che si sbloccasse la mia carriera universitaria. Poi in realtà ho continuato.

Qual è stato il primo libro che ha tradotto?

Un’opera filosofica, appunto, le annotazioni che Søren Kierkegaard aveva preso mentre seguiva le lezioni del vecchio Schelling a Berlino tra il 1841 e il 1842, un testo uscito poi per Bompiani nel 2008. Da lì in avanti però ho tradotto per la maggior parte testi letterari.

E il prossimo che vorrebbe tradurre?

Mi piacerebbe molto tradurre gli altri due romanzi dello scrittore norvegese Roy Jacobsen della trilogia dedicata alla famiglia Barrøy. Finora è uscito in Italia solo il primo volume, Gli invisibili, che racconta la storia di una famiglia di pescatori delle isole all’estremo nord della Norvegia nella prima metà del secolo scorso. Un romanzo molto forte, pur nella sua pacatezza. E poi mi piacerebbe tornare a tradurre lo scrittore danese Jakob Ejersbo (morto prematuramente nel 2008), di cui è uscito in Italia un solo romanzo (Esilio), che per qualche ragione (spero non a causa della traduzione!) non ha avuto il successo che secondo me meritava. Esistono altri romanzi di Ejersbo che meriterebbero di essere tradotti e forse addirittura di diventare dei film: l’ambientazione – la vita dei ricchi attachés europei e delle loro famiglie nella Tanzania degli anni ottanta – è veramente di grande impatto.

Qual è secondo lei lo strumento più prezioso per un traduttore?

Ho sempre pensato che conoscere bene la propria lingua e saperla usare sia ancora più importante che conoscere la lingua straniera da cui si traduce. La propria lingua, quindi, è uno strumento fondamentale, e poi, se proprio di puri strumenti vogliamo parlare, credo che internet sia essenziale: permette di viaggiare, consultare documenti, leggere giornali, incontrare persone e vedere immagini anche digitando una sola parola restando seduti alla scrivania. Credo che in alcuni casi se non esistessero strumenti come Google Immagini, sarebbe impossibile venire a capo di oggetti esistenti a latitudini come quelle della Groenlandia o delle Fær Øer in tempi ragionevolmente “rapidi”.

Essere traduttore ha influito su di lei come lettore? In che modo?

Decisamente. Sono diventata un lettore senza dubbio più esigente. Purtroppo conoscendo i trucchi del mestiere non riesci a fare a meno di vederli in ogni riga che leggi. In genere se un romanzo non è tradotto a regola d’arte ti ritrovi a inciampare tra le righe, ti infastidisci, non riesci più a concentrarti sulla storia. E poi mi rendo conto di apprezzare di più i romanzi non tradotti, ho quindi più spesso bisogno di leggere romanzi italiani, possibilmente non troppo “editati”: lo riconosci subito un testo autentico, autoriale – anche se a volte imperfetto – rispetto un testo costruito a tavolino. La lingua è viva, se leggi una storia e i personaggi parlano come un dizionario e costruiscono periodi come in un manuale di sintassi, capisci che qualcosa non va. Ma vale anche il contrario. L’equilibrio è quello che determina la linea insondabile che distingue ciò che è vivo da ciò che è morto.

Che tipo di legame personale crea con gli autori che traduce?

Devo essere sincera, non lego molto con gli autori che traduco, volutamente. Ovviamente può capitare che chieda delucidazioni su punti non chiari del testo, ma soltanto se è strettamente necessario, in genere preferisco lavorare in autonomia, autore e traduttore fanno due lavori diversi. E non invidio affatto i colleghi inglesi la cui lingua si presta per forza di cose a intromissioni dell’autore del romanzo. È una cosa che mi spaventa, spesso si rischia di discutere sull’indiscutibile, sul non argomentabile, un terreno a dir poco scivoloso.

E con gli editori per cui traduce?

Con alcuni editori c’è un bel legame, ci si consulta sulle nuove uscite, su che cosa vale la pena pubblicare e su che cosa no, sono discussioni gustose e anche divertenti e si ha anche un po’ di voce in capitolo – altrimenti l’unica voce in capitolo ce l’ha il mercato. Magari sono anni che insisti nel dire che un romanzo è bellissimo, ma se prima non lo pubblica la Penguin Random House non lo guarda nessuno… È una cosa che entro una certa misura si può capire, anche se inevitabilmente si ha la sensazione di venire un po’ presi in giro. Quello del traduttore in realtà è un lavoro che necessita di grande discernimento, nel senso che devi essere in grado di capire e accettare che molte scelte editoriali (anche di traduzione) sono del tutto indipendenti dalla considerazione della tua persona e della bontà del tuo lavoro. Un altro caso eclatante sono le scelte di traduzione: razionalmente parlando, ti metti a discutere con un editor che prova idiosincrasia per una parola che per te è perfetta? L’idiosincrasia è una cosa irrazionale, non è un “errore”, che è oggettivo, quindi non discuti, ti devi adeguare senza farti il sangue amaro. All’inizio è faticoso, la prendi sul personale, poi cominci a lasciare correre, diventa mestiere.

Qual è il ricordo più bello della sua carriera?

Ci devo pensare… Forse non è un bel segno… A parte gli scherzi, ricordo con grande gioia alcune proposte di traduzione di autori ai quali tenevo molto, come il danese Kim Leine per esempio, ma soprattutto ricordo con piacere i momenti in cui sono stati i lettori a dirmi che avevano apprezzato il mio lavoro.

Quale libro vorrebbe aver tradotto?

In assoluto? La Recherche, anche se non traduco dal francese e anche se sono certa che trascorrere tanto tempo dentro un’opera simile e trovarmi poi all’improvviso fuori da quell’atmosfera mi procurerebbe qualche problema psicologico. Mi è successo come lettore, non oso immaginare da traduttore…

Pensa che il ruolo del traduttore viva la giusta considerazione nel mondo editoriale di oggi?

In generale no, il traduttore non ha, a livello di sistema, molte tutele, se pensiamo alla considerazione poi, è come pretendere il lusso. Ripeto, parlo in generale, è chiaro che ci sono casi isolati, ma credo siano per lo più delle eccezioni. Comunque, per chi come me lavora con i paesi scandinavi è ovvio che il termine di paragone è quasi inarrivabile, però che tra molti editori ci sia un grande gioco a ribasso sulle tariffe non è segno di grande considerazione del lavoro di traduzione. Pretendere delle royalties sui testi tradotti poi qui in Italia è addirittura impensabile. L’ideale per sopravvivere a una situazione del genere senza soffrire troppo è potersi occuparsi anche di altro, se è davvero possibile.

Che consigli darebbe a un giovane traduttore?

Umiltà e fermezza, in pari misura. La prima è la chiave per non smettere mai di imparare, nonché per preservarsi da ferite gratuite quali sono sempre quelle narcisistiche; la seconda garantisce la dignità del proprio lavoro e il rispetto di sé. A volte un no a chi ti propone delle condizioni di lavoro insostenibili può aiutare a non perdere la strada e, soprattutto, a non perdere tempo.