Lei non sa chi sono io! è un questionario semiserio per conoscere meglio i nostri autori. In questa puntata chiacchieriamo con Claudio Morandini: è nato nel 1960 ad Aosta, dove vive e insegna. Per Bompiani ha scritto Gli oscillanti.
Chi ti ha insegnato a leggere e scrivere?
Non ricordo, davvero. Ma ho imparato prima di andare alle elementari, forse all’asilo, forse per conto mio, forse con l’aiuto dei miei, che non mi facevano mancare i libri. Forse la scrittura si è sviluppata come una forma particolare di disegno – a me piaceva moltissimo disegnare, scarabocchiavo ovunque.
Volevi fare lo scrittore già da piccolo?
Sì, lo scrittore, ma anche il compositore, il disegnatore, il paleontologo, lo speleologo, tutto assieme. Ero un omino del Rinascimento, a modo mio. Il tempo ha poi scremato, la pigrizia e una certa resistenza alla disciplina hanno interrotto le carriere da musicista e da artista, per non dire di quelle scientifiche. Adesso direi che scrivere è una bella sintesi di tutti i miei interessi di sempre: scrivendo dipingo, orchestro, esploro cunicoli, ricostruisco creature estinte…
Qual è il primo libro che ricordi di aver amato da bambino, e l’ultimo libro che hai letto?
Il primo incondizionato amore è Viaggio al centro della Terra di Jules Verne. Ma prima ancora avevo divorato Tarzan delle scimmie di Burroughs. L’ultimo, ancora in lettura, ma per poco, è un saggio, Il paesaggio fragile di Antonella Tarpino.
Dove scrivi, come scrivi (a mano o su un computer) e in quali momenti della giornata?
Trovo più produttivi la mattina o il primo pomeriggio, perché non sono un nottambulo, e di notte dormo, o al massimo rimugino. Scrivo per lo più al computer, a casa mia, in penombra, con musiche amiche in sottofondo (Stravinskij, Milhaud, Britten…). È il momento dell’invenzione, della velocità. La scrittura manuale la riservo alle correzioni, dopo avere stampato il testo: è il momento della riflessione, delle modifiche, delle integrazioni. Stampo molte versioni e ci scarabocchio su, non saprei lavorare altrimenti – immagino che questo sarà motivo di gioia per le future generazioni di filologi.
Qual è la libreria che frequenti più spesso?
Mi piacciono tutte le librerie, passo dall’una all’altra con voluttà, dovrei citarle una per una. E adoro le bancarelle dell’usato, da cui vengo via con le dita annerite. Anni fa lo avrei detto anche dei negozi di dischi, ma quell’epoca è tramontata, ahimè.
In viaggio porti con te libri di carta o eReader?
Preferisco quelli di carta, ma solo per un deficit tecnologico mio.
Dove preferisci leggere?
Sul divano di casa mia. Ma amo leggere ovunque, anche in una radura in montagna. O in treno. Accanto, o in tasca, dei fogli per annotare idee – leggere è già scrivere, è parte della scrittura, come guardarsi attorno, camminare, andare a un concerto, conversare, cucinare, vivere insomma.
In che ordine tieni i libri sui tuoi scaffali?
Non c’è un ordine preciso. È più rigorosa la mia discoteca. Ci sono però libri che attraggono altri libri, o luoghi in cui i libri stazionano in attesa di essere letti o di essere posti da qualche altra parte. Diciamo che non vi è un ordine, ma una propensione all’ordine. Comunque i libri tendono a collocarsi per autore, o per scuola, o per epoca – raramente per casa editrice. Talvolta, per necessità, in base alle dimensioni.
Casa editrice o autore straniero molto amato?
Uno straniero che vorrei veder ripubblicato in Italia e a cui torno spesso per conto mio è Charles-Ferdinand Ramuz. Amo la sua scrittura dissonante e solennemente sgarbata, la considero un buon antidoto alla tentazione del bello stile in cui tutto torna e tutto è prevedibile. In generale ho un debole per gli svizzeri di qualunque lingua, per questo amo seguire il catalogo di un editore come Casagrande, senza il quale non avrei mai scoperto gli autori in lingua romancia.
Un titolo che ti rappresenta o che vorresti aver scoperto tu.
Giù la piazza non c’è nessuno di Dolores Prato. Che splendido, invitante titolo. Ma anche La casa si muove di Guglielmo Petroni – una sciccheria, quest’ultima, pescata in una bancarella, appunto.
C’è un libro che ti ha salvato in un momento difficile, o che ha cambiato il tuo percorso di vita?
I Colloqui con Stravinskij a cura di Robert Craft (che ho nell’edizione Einaudi del 1977). Hanno influenzato i miei studi, il mio modo di ascoltare la musica, di affrontare ogni problema di forma e di struttura anche in letteratura; hanno solleticato la mia propensione al dialogo, alla divagazione, alla digressione; hanno influenzato anche il mio senso dell’umorismo, direi.
Un libro che hai regalato a una persona amata?
Le Storie ciniche di W.S. Maugham, a Marilisa, mia moglie. Ma ne potrei citare diversi altri di quell’autore brillante, che piace a entrambi.
Qual è il personaggio letterario che hai amato maggiormente?
Sono davvero tanti, e resto indeciso tra Tristram Shandy, il Perelà di Palazzeschi, l’Orlando della Woolf, il povero François Lepic di Jules Renard… Va bene, opto per l’ultimo, Pel di Carota.
E quale il luogo della letteratura – anche fantastico – che vorresti visitare?
L’interno della bocca di Pantagruel, con l’equipaggiamento giusto.
Quale libro secondo te si dovrebbe far leggere a scuola?
Ne ho in mente uno che magari non si “dovrebbe” far leggere, ma consigliare con convinzione sì: Il signore delle mosche di William Golding. Funziona, lo so per esperienza: l’elemento avventuroso cattura (e depista un po’) i ragazzi, mentre provoca in loro turbamenti salutari – visti i tempi in cui viviamo – la riflessione sui meccanismi del potere, sulla debolezza della democrazia e sulla fascinazione brutale del totalitarismo. L’allegoria politica su cui si fonda il romanzo secondo me suona ancora fresca e potente, tranne forse per lettori molto snob.
Quale consiglio daresti a uno scrittore esordiente?
Gli direi di non atteggiarsi e di non sgomitare, mica siamo in un reality show. Gli sconsiglierei di parlare dei suoi “demoni”, se non si è Michele Mari fa un po’ ridere e mette in allarme il parentado. Gli direi di praticare l’arte della pazienza e di tenersi alla larga dai manierismi e non rinunciare a sperimentare. E di leggere poesia.
Facebook, Twitter, Instagram, o sei per il silenzio-social?
Ma sì, Facebook, dove sto a modo mio e non senza titubanze. Non riuscirei a essere presente anche sugli altri, per un limite mio di resistenza, ma riconosco che sono strumenti che garantiscono un po’ di visibilità e aiutano a coltivare contatti. Il silenzio-social è un lusso eccessivo, per chi come me vive in provincia, anzi sul confine, e ha bisogno di mantenere un legame con quanto succede altrove, anche se di carattere è un orso. Forse ragionerei in modo diverso, se abitassi in centro a Milano, o a Parigi, oppure se la Gloria già mi avesse laureato.
Un aggettivo per il tuo carattere e un carattere di stampa che ti piace.
Ehm, “oscillante”? Quanto al carattere di stampa, a me piace Cambria, chissà perché.
Copertina rigida o brossura?
Dipende dal numero di pagine. Comunque, di solito mi trovo più a mio agio con la flessibilità della seconda.
Un tuo sogno?
Sogno trasparenza, profondità, gentilezza, sense of humour. Sogno cioè di riuscire a seminarne un po’, e di non essere il solo a farlo, e di vederli crescere attorno a me, un po’ dappertutto.
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