Giunti Editore

— Parola all'autore

Un sublime irregolare. Riscoprire Umberto Silva

Un sublime irregolare. Riscoprire Umberto Silva

Eterno “disorganico”, cineasta, critico, psicoanalista, amico e collaboratore di Moravia, Rossellini, Betti, Bertolucci, La Capria e molti altri, Umberto Silva è soprattutto uno scrittore raffinato e singolare. Lo ripresentiamo ai lettori con Turmac Bleu. Un'autobiografia sognata, e ve lo raccontiamo con la postfazione di Marta Barone, che ha curato il libro.


Umberto Silva ha scritto per cinquant’anni: articoli, saggi, pamphlet, brevi romanzi, poesie, poemi, racconti, trattatelli teologici, diari di viaggio, memorie, dialoghi, autobiografismi, aforismi, una sterminata, eterogenea, eccentrica e sfavillante spedizione tra le parole che è passata, come dire, di fianco alla letteratura canonica, l’ha spesso incrociata, ne è stata ammirata e riconosciuta, ma poi, dopo quel breve lambirsi reciproco, è sempre tornata a seguire la sua scia laterale e personalissima. “Se c’è un irregolare tra i nostri scrittori [...] questo irregolare, non ci sono dubbi, è certamente Umberto Silva,” scriveva di lui La Capria in una prefazione a un suo libro uscito nel 2012 per il notes magico, la piccola, elegante casa editrice fondata a Padova per iniziativa di Silva e di Sonia Ferro, la moglie, insieme ad altri psicanalisti, per pubblicare cose insolite, di nicchia, compresi inediti di Ceronetti, Cioran, Zeichen e La Capria stesso, e dove hanno trovato una collocazione anche molti degli scritti di Silva, sempre troppo irregolari, appunto, per la grande editoria; in questo caso un brevissimo romanzo dal titolo Solo le cameriere s’innamorano. Nell’introduzione La Capria fa un’osservazione che probabilmente raccoglie Silva tutto, con intuizione folgorante: “Silva scrive pagine di varia e indefinibile natura. Per me rappresentano un nuovo genere letterario, raro come quelle farfalle e quegli insetti non ancora catalogati che un entomologo scopre in lontane regioni della terra. [...] Per leggerlo bene bisogna accettare il suo libero arbitrio, la possibilità sconfinata di libertà che è nella mente di creare una serie di relazioni tra cose e idee lontane e disparate.”

È proprio questa scrittura, fatta di divagazioni metafisiche e sulfuree, guizzi estrosi, lampi d’ingegno, associazioni fulminee e sconcertanti (“Sono le sue idee ad avere lui. E questo è forse il motivo per cui di solito i suoi pensieri sembrano al tempo stesso stravaganti e inoppugnabili come evidenze illuminate di botto da un lampo,” sintetizzava bene Ruggero Guarini in una recensione del 2004 alla raccolta di poesie e prose Il fronte interno), lingua stupenda e arabescata, passaggi incredibili e febbrili, a volte nel giro di poche frasi, dal riso più aperto alla tenebra più nera (come dice ancora La Capria in una recensione alle Cameriere sul Corriere della Sera, nel maggio 2012: “A volte si ha la sensazione che nella stessa pagina due pianoforti suonino in contemporanea: il primo un requiem, un capriccio il secondo”), che mi ha fatto pensare, quando un paio di anni fa mi sono trovata a leggere alcuni dei suoi libri grazie alla figlia Sofia, di trovarmi di fronte a qualcosa di assolutamente unico, e che quest’unicità andava salvata, recuperata e portata fuori dall’ombra. I due problemi principali erano la varietà e la quantità di scritti di Silva, spesso ormai irrecuperabili se non per spezzoni come alcuni suoi film, e il fatto che i suoi libri costituissero quasi sempre un non-finito. Infatti, non era raro che un testo fosse una variazione di un altro che l’aveva preceduto; come un pittore, Silva ha lavorato sovente su più variazioni di uno stesso soggetto. Andava quindi fatta una scelta.

L’idea è stata subito, insieme a Sofia e al padre, che per ragioni di salute non poteva riscrivere tutto daccapo ma poteva comunque partecipare attivamente al montaggio, alla riscrittura di alcune parti e alla stesura di brani ex novo, di fare di tre libri (La figlia unica, Solo le cameriere s’innamorano, L’amore al tempo delle botteghe oscure: scritti negli ultimi vent’anni, collegati dal filo esile dell’autobiografismo e i più compiuti e i più autonomi della sua produzione, nonostante qualche ripetizione di scena o di tema, tipica di Silva) un libro unitario, che contenesse le pagine e i capitoli più riusciti di quei libri ma si condensasse in una narrazione fluida, che conservasse sì gli impromptu silvani – rubo il termine alla musica – ma allo stesso tempo raccontasse anche una storia. La sua: il romanzo di un uomo; la storia di un uomo. Un’autobiografia, dunque? Umberto Silva è troppo singolare per una definizione così semplice. Per questo autobiografia sognata: proprio per la sua natura inconsueta, il suo andamento onirico e d’incubo, la vertigine metaforica e simbolica che innerva tutto il testo, il ricordo che spesso sfuma nell’indistinto e talvolta nell’immaginato, i decenni volutamente lasciati vuoti e privi di parola, l’astratto e il concreto che sempre si scambiano di posto, la stranezza meravigliosa che a questo libro è intrinseca.

Naturalmente, in questo lungo lavoro di squadra di ri-creazione e composizione non sono stati solo quei tre romanzi a essere rielaborati, tagliati e riassemblati, ma anche molti degli altri scritti di Silva. Poesie riportate alla prosa per ricostruire passaggi della sua vita e interi personaggi, brani di articoli, scritti inediti. E molto è stato scritto appositamente per Turmac Bleu, grazie anche a interventi, testimonianze e ricordi di altre persone che hanno aiutato a rievocare passaggi che la memoria individuale aveva cancellato. Io ho curato la composizione, ho fatto editing dov’era necessario e ho scritto qualche allacciamento, ma più che altro ho suggerito quando l’allacciamento era necessario e cosa doveva o poteva esserci, per lasciare piena libertà alla prosa di Silva: e quando la sua memoria si riapriva ecco sgorgare, intere e già pressoché perfette, pagine profonde, vivide, magnifiche, che raccontavano la Roma cineasta e intellettuale, la disperazione e la perdizione dopo il lutto, la creazione di una famiglia propria e tante altre immagini, tra le quali molte delle care Ombre che non erano mai state nominate in modo esplicito prima. Sì, in parte è stata una commovente opera di negromanzia: rievocare fantasmi, uno dietro l’altro, e tornare da loro ancora e ancora. Perché la scrittura di Silva, come tutte le scritture vere, è fatta soprattutto di fantasmi.

 

In questo libro sono confluiti con naturalezza tutti i suoi temi principali: i padri e i figli, la colpa, la giovinezza, il parricidio metaforico, la teologia del peccato, il fallimento del senso nel gioco della mancanza di senso (e infatti Silva ama i ribaltamenti, il nonsense, i giochi di parole), i simboli su cui dispiega la sua ironia allegra e crudele, dal Padre alla Madre alla Chiesa al Partito. Ma anche, per la prima volta, la sua testimonianza, con la sua voce così peculiare, di quel mondo scomparso e irripetibile che è stata la Roma degli anni sessanta e settanta, quel coacervo straordinario di intelligenze e di esperienze, un enorme ballo di spettri cui in qualche modo Silva rende omaggio.

Ecco come è nato questo libro, questa specie di misteriosa e indefinibile silloge-romanzo, questo lungo pensiero che copre quasi l’intero arco di una vita eccezionale. Ma il libro non è eccezionale perché lo è la vita che racconta (anche se in questo caso le due cose convergono): è eccezionale perché è la scrittura di Umberto Silva a renderlo tale. In molti si auguravano che prima o poi Silva incontrasse un pubblico più vasto della sua cerchia ristretta di raffinati estimatori. Speriamo allora che sia questa l’occasione per tanti lettori di scoprirlo e, come me, di innamorarsi perdutamente e irrimediabilmente di questo scrittore fuori da ogni classificazione possibile, se non forse quella del genio iridescente e irriverente.


Le foto provengono dall'archivio di Umberto Silva. Courtesy Sofia Silva.

Umberto Silva