Di recente mi ha colpito molto un commento di Colm Tóibín dopo la proiezione del film tratto dal suo romanzo Brooklyn: “Sullo schermo è completo, come se fosse sempre stato lì, ma solo se l’hai scritto sai quanto è stato provvisorio.”
È facile dimenticare gli inizi provvisori, eppure è proprio la provvisorietà che noto quando arriva. Ogni volta è il segnale che c’è una storia da scrivere. Ogni volta è dove il lavoro comincia, e ricordo a me stessa le parole che Van Gogh scrisse a suo fratello Theo: se c’è una scena da dipingere, allora bisogna provare a dipingerla, anche se si ha paura di non esserne capaci. È l’inizio di quella che può sembrare un’interminabile sequela di prove e fallimenti, ciò che Nell Freudenberger ha definito “un cieco brancolare nel buio, in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa, che sia risonante e concreto.”
Tutte le buone storie sono risonanti e concrete: vivono nella mente del lettore e riecheggiano oltre le pagine del libro. Ma concretezza e risonanza sono sfuggenti. Posso scrivere frase dopo frase, paragrafo dopo paragrafo, immagini e collegamenti, oggetti e dialoghi e pensieri; posso arrovellarmi sulla struttura e su come plasmare il tempo, eppure, in qualche modo, l’alchimia non funziona, e allora devo ricordarmi di un’altra frase di Van Gogh a suo fratello (in parte dettata, occorre dirlo, dal fatto che stava chiedendo a Theo altri soldi per comprare nuove tele, ma non per questo è meno vera): “A volte il successo è il risultato di una lunga serie di fallimenti.”
Uno degli esempi più calzanti di questa teoria nel mio lavoro riguarda la ricerca – una lotta di cinque anni – della voce di una bambina chiamata Alyss in un racconto. Avrò riscritto la storia un’infinità di volte, eppure la voce di Alyss sulla pagina non corrispondeva a quella nella mia testa. Resisteva ad ogni assalto. Poi, un giorno, la serendipità si è palesata in due casi fortuiti:
ho letto i primi capitoli del Terzo poliziotto di Flann O’Brien e la lettera e nella mia tastiera ha smesso di funzionare
In qualche modo i due eventi – la gioiosa ginnastica verbale di O’Brien insieme alla strana freschezza e all’aspetto divertente di una pagina di dialogo senza la lettera e nelle parole – hanno apportato qualcosa di nuovo ai miei fallimenti. Hanno aperto una serratura, sbloccando qualcosa che era lì ma non ero ancora riuscita a portare alla luce, conducendomi fino alla voce di Alyss. Non era senza e e non faceva il verso alla prosa di O’Brien, ma alla fine l’ho trovata.
Prove e fallimenti: non conosco altri modi di scrivere. Provo prima in un modo e poi in un altro, ancora e ancora e ancora. Il che mi riporta al concetto di provvisorietà, al dubbio e all’incertezza, e all’esilarante apertura che ne deriva verso tutto ciò che può arrivare. Nel corso degli anni ho appeso alla mensola sopra la mia scrivania diversi stralci di poesia e un vasto assortimento di citazioni, ma la mia preferita in assoluto è di Stendhal, o forse di Gide, ora non ricordo, ma non importa: quello che importa è che stia lì, e che io l’abbia sempre davanti agli occhi:
“Le mie frasi migliori sono quelle che comincio senza sapere come finiranno.”
[Carys Davies, Notes on Craft. First published in English by Granta magazine. All rights reserved. Vietata la riproduzione.]