Giunti Editore

Grandi ritorni. Marina Jarre

Grandi ritorni. Marina Jarre

Capita che nel tempo si perdano voci preziose di scrittori e scrittrici, che scompaiono dalle librerie in silenzio: per ragioni di mercato, in genere, ma non certo letterarie. In Bompiani lavoriamo con cura per riportarli all'attenzione di chi legge. Un caso emblematico è quello di Marina Jarre, di cui lo scorso marzo abbiamo riproposto I padri lontani. Per raccontarvelo usiamo le parole della curatrice del libro, Marta Barone.


Cosa è successo perché i suoi romanzi straordinari e la sua voce unica non siano sopravvissuti al tempo? Perché non è considerata, se non da pochi conoscitori, tra i grandi scrittori italiani del secondo Novecento? Il caso, la sfortuna, il “duro riserbo” di cui parla Claudio Magris e che l’ha portata a tenersi sempre in disparte, lontana dai circoli e dalle mondanità, a evitare le presentazioni e tutto quello che non avesse a che fare direttamente con la scrittura. Qualunque sia la spiegazione del silenzio caduto su di lei, forse è ora di spazzar via la polvere e ridare a Marina Jarre, il posto che le spetta nella narrativa italiana.

I padri lontani, uscito originariamente per Einaudi nel 1987, si pone a metà della sua produzione, ed è probabilmente il suo capolavoro. Lei lo chiamava “la mia autobiografia”, ma come tutti i grandissimi libri supera e sfalda le convenzioni e le etichette. Jarre comincia a raccontare la sua vita muovendosi di continuo tra i tempi e tra gli eventi, che mescola, anticipa e poi riprende all’improvviso molte pagine dopo.

Marina Jarre nacque nel 1925 a Riga, figlia di un ebreo lettone, Samuel Gersoni, e di un’italiana, Clara Coïsson, che insegnava in una scuola italiana, veniva dalle valli valdesi e fu un’importante traduttrice dal russo. La lingua d’infanzia di Marina Gersoni, sposata Jarre dopo la seconda guerra mondiale, era il tedesco: ed è per questo che spesso il suo italiano si muove in uno spazio incerto che abbiamo scelto di preservare nei suoi piccoli, strani “errori”, una fatica e un imbarazzo con cui ha dovuto avere a che fare per tutta la vita, e che allo stesso tempo dà alla sua prosa una strana magia.

Nel miscuglio di nazionalità della Riga multiculturale in cui vive, Marina sa che le identità restano intoccabili. Lei, “così mi hanno detto”, è lettone e cristiana, anche se “parlo tedesco e non ho capito chi sia Gesù Cristo”. I suoi nonni da parte di padre, lui lettone e lei russa, sono ebrei. I suoi nonni italiani, ma anche un po’ francesi, sono valdesi. Sua madre è valdese. Suo padre sarebbe ebreo, ma non ha religione. I cattolici nella sua famiglia sono considerati stupidi, e nessuno le spiega la differenza tra gli ebrei e i cristiani.

Nel 1935, dopo il divorzio dei genitori, Marina e la sorella vengono allontanate dal padre e spedite dalla madre a Torre Pellice, dalla nonna. È a questo punto, all’arrivo nelle valli valdesi, in quel mondo che porta una tragica storia di persecuzioni e lotte di padri lontani, che “il tempo entrò nella mia vita”. Il tempo, uno dei temi più importanti che innervano il romanzo e legano le sue parti in una costella- zione: “Mi diede per la prima volta un passato uno spessore in cui immergermi sfuggendo a indagini e assalti; la storia della mia infanzia era quanto mi rimaneva della mia esistenza precedente poiché nel giro di poche settimane cambiai paese, lingua e ambiente familiare.” È qui che comincia il lungo corpo a corpo di Marina con l’italiano, che non ha mai parlato né scritto prima.

La terribile sorte del padre (verrà ucciso insieme a una bambina avuta da un’infermiera tedesca e a tutti i suoi familiari nello sterminio degli ebrei di Riga del 1941) in questo libro viene appena sfiorata, come se Jarre si ritraesse dalla Storia e dalla sua storia personale. Solo molto più tardi deciderà di farci i conti, nella sorta di completamento di questo libro che sarà Ritorno in Lettonia (pubblicato nel 2003). Dell’infanzia lettone non rimarrà più nulla, se non il miraggio rosato di una lunga spiaggia baltica dove lei e Sisi raccoglievano conchiglie e sassolini; della sorte del padre sapranno solo dieci anni più tardi, ma come la sua persona prima anch’essa, e la sua spaventosa immensità, cadrà nel silenzio e nella rimozione; ma, scrive Jarre, “la sua morte è rimasta dentro la mia vita come un seme nascosto e via via che vivevo e invecchiavo, essa è cresciuta nel ricordo, non diversamente da un lungo amore”.

Jarre continua a osservare, dunque. Ritrae il mondo valdese, il Dio barbetto e tremendo degli antenati di sua madre al quale mal si adatta, la sua adolescenza, le battaglie con la nonna, la lenta separazione dalla sorella, le amicizie e le prime infatuazioni, la nostalgia della madre che lavora all’estero e vede raramente. È questo l’altro grande tema dei Padri lontani. La mancanza di appartenenza, di “patria”, di identità, a volte fieramente perseguita, a volte più sofferta, a volte soltanto registrata come dato di fatto. Un’estraneità che sente anche rispetto al mondo valdese, pure in parte il suo.

C’è qualcos’altro, però, che arriva nella sua vita in questo momento. “Ricordo benissimo quando mi accorsi che le parole collocate in un certo modo – secondo una necessità assoluta – erano belle.” Jarre ancora non lo sa, ma ha scoperto il suo destino, anche se avrebbe cominciato a scrivere davvero molti anni più tardi, a Torino, già sposata e incinta della prima figlia. 

I padri lontani è un libro di pietra e di splendori. Marina Jarre non è una scrittrice metafisica, non cede mai al grido e all’eccesso (“Io non piango e non mi stupisco, io racconto”): la sua prosa rimane sempre asciutta, liscia e bellissima anche nei momenti di massima intensità. E forse è per questo che le sue aperture di lirismo, le sue magnifiche metafore, certe incredibili intuizioni nel suo studio penetrante della mente dei vivi erompono sulla pagina con tanta emozione e vividezza, grandiose come uno spettacolo naturale. I padri lontani, così indefinibile e originale, così simile alla sua altera autrice, era qualcosa che mancava del tutto nel panorama italiano di allora, prefigurando inconsapevolmente tutte le scritture autofinzionali di questi anni e le nuove direzioni che stanno prendendo; ed è quindi qualcosa che ancora ha molto da dire sulla scrittura e sugli umani nel nostro presente e nel nostro futuro, perché questo fanno i grandi libri. Continuano, e ci continuano.

Marina Jarre