I famelici
Il protagonista di questa storia è un settantenne
di straordinaria vitalità, un uomo di successo.
Sacrifici ne ha fatti tanti ma la congiuntura più
favorevole nella quale poteva sperare di imbattersi
– gli euforici e dissoluti anni ottanta – e una
famelica volontà di affermarsi gli hanno
permesso di sfuggire al destino da subalterno
a cui sembrava condannato. L’altro protagonista
di queste pagine – la voce narrante – è un giovane
uomo cauto e pensoso. Era convinto che
la laurea gli avrebbe garantito un futuro
luminoso, invece il suo sogno – e quello
di un’intera generazione – si è rivelato ben
presto un’illusione e oggi, diviso tra lavori
e amori precari, è costretto a ridimensionare
le aspettative. Ma senza piangersi addosso.
A dispetto dei cliché che lo vorrebbero fragile
e spaesato, resiste. Forse grazie a una dose
d’ironia partenopea capace di stemperarne
il disincanto. Non è tutto. C’è un legame
inscindibile tra i due uomini: sono padre
e figlio, e questa è la storia del loro scontro.
E forse quella di una possibile riconciliazione.
Il racconto procede per istantanee, schegge
di uno specchio infranto nel quale tutti
ritroviamo un pezzo di noi. I riti, le parole,
lo stile di una famiglia guidata da un acceso
desiderio di riscatto compongono il mosaico
dei tic e delle idiosincrasie dell’Italietta
piccoloborghese novecentesca. Evocandole
una per una, il figlio narratore riordina
le tessere di questo passato con occhi nuovi,
più indulgenti, capaci di riconoscere a chi
lo ha preceduto lo slancio, l’abnegazione,
un’innata gioia di vivere. Davide D’Urso indaga
nel microcosmo dei legami familiari
per realizzare un affresco lucido e partecipe
del Paese, raccontandoci chi eravamo e cosa
siamo diventati.
Il protagonista di questa storia è un settantenne
di straordinaria vitalità, un uomo di successo.
Sacrifici ne ha fatti tanti ma la congiuntura più
favorevole nella quale poteva sperare di imbattersi
– gli euforici e dissoluti anni ottanta – e una
famelica volontà di affermarsi gli hanno
permesso di sfuggire al destino da subalterno
a cui sembrava condannato. L’altro protagonista
di queste pagine – la voce narrante – è un giovane
uomo cauto e pensoso. Era convinto che
la laurea gli avrebbe garantito un futuro
luminoso, invece il suo sogno – e quello
di un’intera generazione – si è rivelato ben
presto un’illusione e oggi, diviso tra lavori
e amori precari, è costretto a ridimensionare
le aspettative. Ma senza piangersi addosso.
A dispetto dei cliché che lo vorrebbero fragile
e spaesato, resiste. Forse grazie a una dose
d’ironia partenopea capace di stemperarne
il disincanto. Non è tutto. C’è un legame
inscindibile tra i due uomini: sono padre
e figlio, e questa è la storia del loro scontro.
E forse quella di una possibile riconciliazione.
Il racconto procede per istantanee, schegge
di uno specchio infranto nel quale tutti
ritroviamo un pezzo di noi. I riti, le parole,
lo stile di una famiglia guidata da un acceso
desiderio di riscatto compongono il mosaico
dei tic e delle idiosincrasie dell’Italietta
piccoloborghese novecentesca. Evocandole
una per una, il figlio narratore riordina
le tessere di questo passato con occhi nuovi,
più indulgenti, capaci di riconoscere a chi
lo ha preceduto lo slancio, l’abnegazione,
un’innata gioia di vivere. Davide D’Urso indaga
nel microcosmo dei legami familiari
per realizzare un affresco lucido e partecipe
del Paese, raccontandoci chi eravamo e cosa
siamo diventati.