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La filosofia di Giulio Cesare Vanini (Taurisano
1585 – Tolosa 1619) è probabilmente
l’espressione più estrema del radicalismo
della seconda decade del Seicento. Il
pensatore pugliese, inizialmente frate
carmelitano, rappresenta in qualche modo
la coscienza filosofica in cui vengono alla
luce tutti gli elementi di crisi dell’eredità
umanistico-rinascimentale: demolisce il mito
dell’antropocentrismo, scardina i princìpi
del platonismo cristianizzato, fa scricchiolare
i pilastri dell’aristotelismo concordistico,
smantella la costruzione di un universo
compatto, finito, armonizzato, avente al suo
vertice Dio e la schiera delle intelligenze
angeliche, stronca ogni forma di teleologismo,
sfata il mito del primato dell’uomo nella
scala degli esseri viventi, manda in frantumi
i più consolidati princìpi dell’etica cristiana,
smaschera le illusioni della magia e
dell’astrologia. In positivo, teorizza un universo
autonomo nella sua composizione materiale e
nei suoi princìpi costitutivi di moto e di quiete
e recide alla radice il rapporto della natura con
Dio, poiché nega non solo l’atto creativo, ma
anche l’attività assistenziale, provvidenzialistica
e finalistica, di un’intelligenza sovraceleste.
Gli sbocchi materialistici del pensiero
di Vanini sono inevitabili: tutto si riduce
a materia vivente e vivificatrice, senza
gerarchizzazioni e gradi di realtà, poiché
unica è la materia di cui sono composti i
corpi celesti e quelli terreni fino ai più umili
come lo scarabeo. La vita è l’effetto casuale
della generazione spontanea e l’uomo non
fa eccezione: rigorosamente radicato nel
regno animale, è anch’esso una produzione
spontanea della materia; il suo passato è
a quattro zampe e nella sua anima non v’è
traccia di un’impronta divina. Per queste idee,
accusato di ateismo dal Parlamento di Tolosa,
fu condannato a morte a soli 34 anni; pare
che poco prima di essere giustiziato abbia
esclamato: “Andiamo a morire allegramente
da filosofo!”
La filosofia di Giulio Cesare Vanini (Taurisano
1585 – Tolosa 1619) è probabilmente
l’espressione più estrema del radicalismo
della seconda decade del Seicento. Il
pensatore pugliese, inizialmente frate
carmelitano, rappresenta in qualche modo
la coscienza filosofica in cui vengono alla
luce tutti gli elementi di crisi dell’eredità
umanistico-rinascimentale: demolisce il mito
dell’antropocentrismo, scardina i princìpi
del platonismo cristianizzato, fa scricchiolare
i pilastri dell’aristotelismo concordistico,
smantella la costruzione di un universo
compatto, finito, armonizzato, avente al suo
vertice Dio e la schiera delle intelligenze
angeliche, stronca ogni forma di teleologismo,
sfata il mito del primato dell’uomo nella
scala degli esseri viventi, manda in frantumi
i più consolidati princìpi dell’etica cristiana,
smaschera le illusioni della magia e
dell’astrologia. In positivo, teorizza un universo
autonomo nella sua composizione materiale e
nei suoi princìpi costitutivi di moto e di quiete
e recide alla radice il rapporto della natura con
Dio, poiché nega non solo l’atto creativo, ma
anche l’attività assistenziale, provvidenzialistica
e finalistica, di un’intelligenza sovraceleste.
Gli sbocchi materialistici del pensiero
di Vanini sono inevitabili: tutto si riduce
a materia vivente e vivificatrice, senza
gerarchizzazioni e gradi di realtà, poiché
unica è la materia di cui sono composti i
corpi celesti e quelli terreni fino ai più umili
come lo scarabeo. La vita è l’effetto casuale
della generazione spontanea e l’uomo non
fa eccezione: rigorosamente radicato nel
regno animale, è anch’esso una produzione
spontanea della materia; il suo passato è
a quattro zampe e nella sua anima non v’è
traccia di un’impronta divina. Per queste idee,
accusato di ateismo dal Parlamento di Tolosa,
fu condannato a morte a soli 34 anni; pare
che poco prima di essere giustiziato abbia
esclamato: “Andiamo a morire allegramente
da filosofo!”