La città di Dio
Riproporre la lettura della Città di Dio,
in una nuova traduzione italiana che si esprime
in un linguaggio vivace e moderno, eppur
fedele e attento al testo antico, significa
allacciarsi a una lunga tradizione. Da quando
discepoli di sant’Agostino, come Paolo Orosio,
cominciarono a leggere quei libri a mano a mano
che venivano composti e pubblicati, non si è
mai più smesso di riprendere in mano l’opera
agostiniana. Vi si rispecchiò l’anima di tutto
il Medioevo fino a Dante, vi si riconobbero
i pensatori dell’Umanesimo e della Riforma,
vi trovarono alimento le meditazioni ecumeniche
di uomini d’opposta sponda, come Bossuet
e Leibniz, e poi quelle, progressivamente
laicizzanti, dei filosofi della storia, da Vico a Hegel
a Comte, e infine l’agostinismo meno dichiarato,
ma profondo, del pensiero cristiano
contemporaneo, da Blondel a Mauriac a Claudel,
agli storici e filosofi interessati al mondo tardo
antico e medievale, come Marrou e Gilson.
Agostino cominciò a scrivere La Città di Dio
sotto l’impeto di violente emozioni: il sacco
di Roma del 410 da parte dei Visigoti di Alarico,
l’incontro in Africa con i profughi in fuga dall’Italia,
le accuse della società pagana contro i cristiani.
Gli dèi sono sdegnati, si diceva, e hanno
abbandonato la custodia dell’Urbe e dell’Impero.
L’opera, “un’impresa grande e difficile” come
egli stesso la chiama, fu scritta lentamente,
nell’arco di quasi un ventennio, interrotta
spesso da altri impegni pastorali e dottrinali
(le controversie con i donatisti e con i pelagiani),
giungendo a compimento negli ultimi anni
di vita del santo. Allora anche la sua città,
la piccola Ippona nella grande Africa romana,
stava per essere investita ormai dalle ondate
barbariche dei Vandali. Agostino si preoccupa
di ribattere le accuse dei superstiti pagani.
Nella prima parte (libri I-X) l’opera è come
l’ultima delle apologie cristiane contro gli dèi
“falsi e bugiardi”. Ma nella seconda parte
(libri XI-XXII) la Città di Dio rappresenta
l’espressione più viva della speranza cristiana
nella disperazione d’una civiltà in rovina.
Posta al crepuscolo, fra lo splendido tramonto
del mondo antico e un’alba ancora incerta,
essa stabilisce i fondamenti per inscrivere
in un significato generale i grandi eventi storici.
Ove si scopra che la storia è guidata
dalla Provvidenza, allora ogni avvenimento,
la piccola vicenda personale come le grandi
svolte dell’umanità, s’illumina d’un significato.
L’oscuro non-senso si dissolve. E ciò basta
a sorreggere le forze e ad animare la pazienza
dell’uomo.
Riproporre la lettura della Città di Dio,
in una nuova traduzione italiana che si esprime
in un linguaggio vivace e moderno, eppur
fedele e attento al testo antico, significa
allacciarsi a una lunga tradizione. Da quando
discepoli di sant’Agostino, come Paolo Orosio,
cominciarono a leggere quei libri a mano a mano
che venivano composti e pubblicati, non si è
mai più smesso di riprendere in mano l’opera
agostiniana. Vi si rispecchiò l’anima di tutto
il Medioevo fino a Dante, vi si riconobbero
i pensatori dell’Umanesimo e della Riforma,
vi trovarono alimento le meditazioni ecumeniche
di uomini d’opposta sponda, come Bossuet
e Leibniz, e poi quelle, progressivamente
laicizzanti, dei filosofi della storia, da Vico a Hegel
a Comte, e infine l’agostinismo meno dichiarato,
ma profondo, del pensiero cristiano
contemporaneo, da Blondel a Mauriac a Claudel,
agli storici e filosofi interessati al mondo tardo
antico e medievale, come Marrou e Gilson.
Agostino cominciò a scrivere La Città di Dio
sotto l’impeto di violente emozioni: il sacco
di Roma del 410 da parte dei Visigoti di Alarico,
l’incontro in Africa con i profughi in fuga dall’Italia,
le accuse della società pagana contro i cristiani.
Gli dèi sono sdegnati, si diceva, e hanno
abbandonato la custodia dell’Urbe e dell’Impero.
L’opera, “un’impresa grande e difficile” come
egli stesso la chiama, fu scritta lentamente,
nell’arco di quasi un ventennio, interrotta
spesso da altri impegni pastorali e dottrinali
(le controversie con i donatisti e con i pelagiani),
giungendo a compimento negli ultimi anni
di vita del santo. Allora anche la sua città,
la piccola Ippona nella grande Africa romana,
stava per essere investita ormai dalle ondate
barbariche dei Vandali. Agostino si preoccupa
di ribattere le accuse dei superstiti pagani.
Nella prima parte (libri I-X) l’opera è come
l’ultima delle apologie cristiane contro gli dèi
“falsi e bugiardi”. Ma nella seconda parte
(libri XI-XXII) la Città di Dio rappresenta
l’espressione più viva della speranza cristiana
nella disperazione d’una civiltà in rovina.
Posta al crepuscolo, fra lo splendido tramonto
del mondo antico e un’alba ancora incerta,
essa stabilisce i fondamenti per inscrivere
in un significato generale i grandi eventi storici.
Ove si scopra che la storia è guidata
dalla Provvidenza, allora ogni avvenimento,
la piccola vicenda personale come le grandi
svolte dell’umanità, s’illumina d’un significato.
L’oscuro non-senso si dissolve. E ciò basta
a sorreggere le forze e ad animare la pazienza
dell’uomo.