Gli iperborei
Sono stati il leone, la balena, il cerbiatto,
protagonisti di una recita di fine anno nella quale
il canguro era scomparso e i suoi amici dovevano
ritrovarlo. Adesso hanno quasi trent’anni e vagano
nei meandri di una vita dorata: mangiano pesce
crudo e patanegra, bevono vini pregiati, fumano
essenze, assumono droghe come da bambini
consumavano caramelle, navigano, festeggiano,
inseguono le arti, tentano la politica. Hanno
corpi scolpiti e vestiti costosi, sono figli di primari
e giornalisti celebri, di miliardari dai patrimoni
solidi e antichi o recenti e sospetti, ma sono
anche gli eredi dei ribelli che hanno caratterizzato
stagioni gloriose e disperate della storia: coloro
che, prosperando nella pace, hanno invocato
la guerra, che amando i genitori ne hanno patito
le ipocrisie, smascherato le contraddizioni
e sognato l’annientamento. Poldo Biancheri,
“Ciccio” Tapia, Guenda Pech, Stella Marraffa,
Aldo: hanno tutto ma si sentono in trappola,
e questa è la loro estate, quella in cui vogliono
uscire dal cerchio. È Poldo la voce narrante
della loro ebbrezza, della loro sfida: racconta
come se vedesse tutto già da una distanza,
registrando ogni cosa con fermezza ma senza
nascondere la nostalgia per un’infanzia ancora
vicina, la rabbia verso padri che si sono presi
tutto non lasciando che briciole, la tenerezza
per i fratelli e i coetanei capaci di farsi del male
per protesta o per amore. Poldo ha portato
in barca con sé L’Anticristo, in cui Nietzsche
sembra parlare di loro: “Guardiamoci in viso:
noi siamo Iperborei... Abbiamo trovato l’uscita
per interi millenni di labirinto. Oltre il nord,
oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita,
la nostra felicità...”
L’esordio narrativo di Pietro Castellitto
è sorprendente quanto l’opera d’arte scagliata
dai suoi protagonisti dentro una piscina, doloroso
come la voce di un figlio che soffre eppure capace
di momenti di incanto, come gli occhi di un
cerbiatto che brillano mentre la notte si spegne.
Sono stati il leone, la balena, il cerbiatto,
protagonisti di una recita di fine anno nella quale
il canguro era scomparso e i suoi amici dovevano
ritrovarlo. Adesso hanno quasi trent’anni e vagano
nei meandri di una vita dorata: mangiano pesce
crudo e patanegra, bevono vini pregiati, fumano
essenze, assumono droghe come da bambini
consumavano caramelle, navigano, festeggiano,
inseguono le arti, tentano la politica. Hanno
corpi scolpiti e vestiti costosi, sono figli di primari
e giornalisti celebri, di miliardari dai patrimoni
solidi e antichi o recenti e sospetti, ma sono
anche gli eredi dei ribelli che hanno caratterizzato
stagioni gloriose e disperate della storia: coloro
che, prosperando nella pace, hanno invocato
la guerra, che amando i genitori ne hanno patito
le ipocrisie, smascherato le contraddizioni
e sognato l’annientamento. Poldo Biancheri,
“Ciccio” Tapia, Guenda Pech, Stella Marraffa,
Aldo: hanno tutto ma si sentono in trappola,
e questa è la loro estate, quella in cui vogliono
uscire dal cerchio. È Poldo la voce narrante
della loro ebbrezza, della loro sfida: racconta
come se vedesse tutto già da una distanza,
registrando ogni cosa con fermezza ma senza
nascondere la nostalgia per un’infanzia ancora
vicina, la rabbia verso padri che si sono presi
tutto non lasciando che briciole, la tenerezza
per i fratelli e i coetanei capaci di farsi del male
per protesta o per amore. Poldo ha portato
in barca con sé L’Anticristo, in cui Nietzsche
sembra parlare di loro: “Guardiamoci in viso:
noi siamo Iperborei... Abbiamo trovato l’uscita
per interi millenni di labirinto. Oltre il nord,
oltre il ghiaccio e la morte: la nostra vita,
la nostra felicità...”
L’esordio narrativo di Pietro Castellitto
è sorprendente quanto l’opera d’arte scagliata
dai suoi protagonisti dentro una piscina, doloroso
come la voce di un figlio che soffre eppure capace
di momenti di incanto, come gli occhi di un
cerbiatto che brillano mentre la notte si spegne.