Principia Ethica
In questo libro, considerato atto di nascita dell’etica
analitica, Moore intende confutare sia il “naturalismo”
di Herbert Spencer e John Stuart Mill sia l’etica
“metafisica” di Francis Bradley e John McTaggart
denunciando la fallacia naturalistica o metafisica
consistente nell’identificare “buono” con proprietà
quali “risultato dell’evoluzione”, “produttivo di felicità”,
“conforme all’essenza delle cose”. La domanda che
chiede se ciò che è più evoluto o piacevole sia anche
buono è sempre una domanda “aperta”; pertanto
“buono” è una nozione semplice e indefinibile. Oltre
alla definizione del termine “buono”, l’etica comprende
la domanda sul bene “quali cose sono buone”,
e la domanda sulla condotta “che dobbiamo fare”.
La risposta alla prima domanda è che non si può
dimostrare che certe cose sono buone ma solo
chiedersi se qualcosa avrebbe valore anche se fosse
l’unica cosa esistente. Questo metodo dell’“isolamento
assoluto” concluderebbe che il “valore intrinseco”
non è posseduto dal piacere ma da “unità organiche”
di cui gli affetti e il godimento della bellezza sono
gli esempi maggiori.
La risposta alla domanda sulla condotta è che
non esistono norme assolute: il criterio che stabilisce
l’azione giusta è la produzione di conseguenze
migliori. Il calcolo del valore intrinseco portato
dalle conseguenze è però irrealizzabile per via
della complessità e aleatorietà dei fattori coinvolti.
L’“utilitarismo ideale” di Moore resta quindi
un’indicazione di massima che non può tradursi
in una guida effettiva per l’azione.
I Principia divennero subito un libro di culto per
i membri del circolo di Bloomsbury, che vi trovarono
il manifesto di un “esistenzialismo” che sfidava
l’ipocrisia della morale tradizionale.
Negli anni venti i filosofi anglosassoni ripresero
la tesi che la ricerca sul significato di “buono”
è l’oggetto primario dell’etica, avviando la disciplina
oggi chiamata metaetica. L’argomento dei Principia
venne utilizzato per criticare le posizioni naturalistiche
e fornì un contributo rilevante – contro l’intenzione di
Moore – alla formulazione di teorie non-cognitiviste.
Dalla fine degli anni cinquanta, quando i filosofi
anglosassoni riscoprirono l’etica normativa, anche
l’utilitarismo ideale tornò al centro dell’interesse
nel contesto di una competizione fra etiche kantiane,
utilitariste e neoaristoteliche.
In questo libro, considerato atto di nascita dell’etica
analitica, Moore intende confutare sia il “naturalismo”
di Herbert Spencer e John Stuart Mill sia l’etica
“metafisica” di Francis Bradley e John McTaggart
denunciando la fallacia naturalistica o metafisica
consistente nell’identificare “buono” con proprietà
quali “risultato dell’evoluzione”, “produttivo di felicità”,
“conforme all’essenza delle cose”. La domanda che
chiede se ciò che è più evoluto o piacevole sia anche
buono è sempre una domanda “aperta”; pertanto
“buono” è una nozione semplice e indefinibile. Oltre
alla definizione del termine “buono”, l’etica comprende
la domanda sul bene “quali cose sono buone”,
e la domanda sulla condotta “che dobbiamo fare”.
La risposta alla prima domanda è che non si può
dimostrare che certe cose sono buone ma solo
chiedersi se qualcosa avrebbe valore anche se fosse
l’unica cosa esistente. Questo metodo dell’“isolamento
assoluto” concluderebbe che il “valore intrinseco”
non è posseduto dal piacere ma da “unità organiche”
di cui gli affetti e il godimento della bellezza sono
gli esempi maggiori.
La risposta alla domanda sulla condotta è che
non esistono norme assolute: il criterio che stabilisce
l’azione giusta è la produzione di conseguenze
migliori. Il calcolo del valore intrinseco portato
dalle conseguenze è però irrealizzabile per via
della complessità e aleatorietà dei fattori coinvolti.
L’“utilitarismo ideale” di Moore resta quindi
un’indicazione di massima che non può tradursi
in una guida effettiva per l’azione.
I Principia divennero subito un libro di culto per
i membri del circolo di Bloomsbury, che vi trovarono
il manifesto di un “esistenzialismo” che sfidava
l’ipocrisia della morale tradizionale.
Negli anni venti i filosofi anglosassoni ripresero
la tesi che la ricerca sul significato di “buono”
è l’oggetto primario dell’etica, avviando la disciplina
oggi chiamata metaetica. L’argomento dei Principia
venne utilizzato per criticare le posizioni naturalistiche
e fornì un contributo rilevante – contro l’intenzione di
Moore – alla formulazione di teorie non-cognitiviste.
Dalla fine degli anni cinquanta, quando i filosofi
anglosassoni riscoprirono l’etica normativa, anche
l’utilitarismo ideale tornò al centro dell’interesse
nel contesto di una competizione fra etiche kantiane,
utilitariste e neoaristoteliche.