Il Kitsch
Una nuova luminosa edizione per uno dei testi classici del Novecento che hanno rivoluzionato il modo di concepire l’arte e il campo più esteso e vivo dell’estetica quotidiana. Quando nel 1968 Gillo Dorfles pubblica un volume dedicato
al fenomeno del kitsch, la parola stessa, attinta dalla lingua
tedesca, era ignota fuori dell’area germanofona. Ma se la parola
era poco diffusa, i prodotti e i comportamenti che
si caratterizzavano per il loro (più o meno deliberato) cattivo
gusto sciamavano dappertutto, sconfinando l'ambito
artistico per insinuarsi in ogni aspetto della vita contemporanea,
dal design alla comunicazione, dalla moda all’arredamento,
dallo sport allo spettacolo.
Secondo Dorfles il kitsch non è però un concetto atemporale,
legato com’è all’idea di riproducibilità tecnica che si è venuta
affermando con la seconda rivoluzione industriale. Prima non
sono mancate situazioni in cui il processo di creazione
artigianale raggiungeva un certo grado di serialità, ma senza
dubbio la moltiplicazione e la diffusione tipiche delle tecnologie
moderne hanno impresso al fenomeno una vitalità inarrestabile,
e subdolamente maliziosa.
È questa infatti l’essenza del kitsch, esclusi certi suoi usi in chiave
umoristica: gratificare l’utente con un senso di artisticità facile,
superficiale, e in definitiva artefatta, per manipolare la sua
coscienza a uso delle varie propagande (politica, religiosa,
consumistica).
Pur acutamente critica, l’analisi di Dorfles resta sempre curiosa,
eclettica e rispettosa degli altri, attenta a non inciampare nel
moralismo e nel distinguere, all’interno di un fenomeno così
vasto e ormai “naturale”, le sue varie sfumature e componenti. Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto rappresenta perciò una pietra
miliare della riflessione estetica contemporanea, proprio perché
oggi dominata dal suo apparente contrario, il buon gusto imposto
dal postmoderno che fa della contraffazione stessa un’arte.
Una nuova luminosa edizione per uno dei testi classici del Novecento che hanno rivoluzionato il modo di concepire l’arte e il campo più esteso e vivo dell’estetica quotidiana. Quando nel 1968 Gillo Dorfles pubblica un volume dedicato
al fenomeno del kitsch, la parola stessa, attinta dalla lingua
tedesca, era ignota fuori dell’area germanofona. Ma se la parola
era poco diffusa, i prodotti e i comportamenti che
si caratterizzavano per il loro (più o meno deliberato) cattivo
gusto sciamavano dappertutto, sconfinando l'ambito
artistico per insinuarsi in ogni aspetto della vita contemporanea,
dal design alla comunicazione, dalla moda all’arredamento,
dallo sport allo spettacolo.
Secondo Dorfles il kitsch non è però un concetto atemporale,
legato com’è all’idea di riproducibilità tecnica che si è venuta
affermando con la seconda rivoluzione industriale. Prima non
sono mancate situazioni in cui il processo di creazione
artigianale raggiungeva un certo grado di serialità, ma senza
dubbio la moltiplicazione e la diffusione tipiche delle tecnologie
moderne hanno impresso al fenomeno una vitalità inarrestabile,
e subdolamente maliziosa.
È questa infatti l’essenza del kitsch, esclusi certi suoi usi in chiave
umoristica: gratificare l’utente con un senso di artisticità facile,
superficiale, e in definitiva artefatta, per manipolare la sua
coscienza a uso delle varie propagande (politica, religiosa,
consumistica).
Pur acutamente critica, l’analisi di Dorfles resta sempre curiosa,
eclettica e rispettosa degli altri, attenta a non inciampare nel
moralismo e nel distinguere, all’interno di un fenomeno così
vasto e ormai “naturale”, le sue varie sfumature e componenti. Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto rappresenta perciò una pietra
miliare della riflessione estetica contemporanea, proprio perché
oggi dominata dal suo apparente contrario, il buon gusto imposto
dal postmoderno che fa della contraffazione stessa un’arte.